Elogio della penna stilografica
Non è soltanto un oggetto duttile ed elegante. La penna stilografica è anche qualcosa d’altro e di diverso. È una sorta di magica protesi della mente che tiene dietro al pensiero, lo asseconda nel suo tragitto labirintico, lo insegue nelle sue arditezze, lo sostiene nelle sue pause meditative.
Basta una lieve pressione delle dita, ed ecco che sul nitore della pagina si materializzano, mediante il suo negro sangre, i lampi della riflessione, prendono corpo i fantasmi che abitano la mente dello scrittore, si placano, nel fluire lento o rapinoso della scrittura, che si allinea sul foglio come il tracciato di un diagramma, le pulsioni, i dubbi, le incertezze.
La penna stilografica non crea distanza tra chi scrive e la pagina bianca, anzi ti consente di far corpo con essa, e ti invoglia a stabilire un rapporto di simbiotica empatia.
Lo scrittore, come un avveduto artigiano, nell’elaborare il suo manufatto, corregge, lima, modifica. Lì, sulla pagina, restano le tracce di questi interventi, di queste cancellature che sembrano cicatrici appena cauterizzate, e questi segni, questi freghi, questi ripensamenti stanno a testimoniare l’intenso lavorìo, la paziente dedizione necessari a raggiungere un onesto risultato.
Gli scritti qui raccolti provengono da una rubrica che sul finire degli anni novanta, Giuseppe Neri tenne, per due stagioni consecutive, all’interno del contenitore Lampi… (da lui ideato e diretto) che andava in onda su Radiotre. Quella rubrica costituì una specie di osservatorio settimanale sul mondo e sulla comunicazione culturale in Italia. Il quadro che ne emerge non è esaltante.
È passato qualche anno da quando questi interventi furono scritti e la situazione che essi descrivono non è mutata. Anzi nel frattempo si è ulteriormente degradata.