Alida Airaghi
Poesia esemplarmente, programmaticamente femminile, centrata sugli affetti, sui gesti quotidiani, sugli incontri-rivelazione con momenti e persone di ogni «oggi», vissuto nella sua miracolosa singolarità: “E la radio con Gershwin / il benzinaio elegantissimo, galante / ed io buongiorno, buongiorno nuovo giorno...”. Ci sono colori che si affacciano agli occhi e li stupiscono con la loro vivace imperiosità (il giallo del grano, il bianco dei mandorli, l’azzurro del mare; e tanto verde, tanta luce); ci sono animali (uccelli, gatti) e bambini, i propri e quelli del passato. Ci sono gli oggetti (le sedie regalate al compleanno, e non del tutto integre perché acquistate da un’esposizione), le abitudini comuni a tutti (“Molto bella l’estate / per questo suo camminare a piedi nudi nella casa / sentire com’è fresco il duro marmo”). C’è ovviamente l’amore per il proprio uomo: “Più bianco, più luce, Amore mio. / E girare solo dentro al chiostro / dei tuoi denti, vorrei”. I viaggi, gli addii, i ritorni. Ma soprattutto la tenace, riconoscente dedizione alla casa, intesa come guscio protettivo, come àncora di salvezza, e riflesso di sé, del proprio sentire, del proprio ritrovarsi: “Che l’intero senso / era nella casa, alla partenza/ salutata brevemente”, “La mia casa / vorrei che fosse bianca, / piena di noi soltanto / e delle risa a gola dei bambini”, “La casa resta quella con la nostra essenza e il dolore, / dove la morte e la nascita sono incise nei muri”. Versi che non temono di sfiorare la retorica, e sembrano invece farsi un vanto della loro domestica, curata, rasserenante semplicità.
16-11-2016
Lucilla Conte
A che cosa serve la poesia? E’ una domanda difficile a cui troppo spesso si danno risposte scontate, prevedibili e mai completamente appaganti. E’ troppo superbo dire che non abbiamo bisogno di cose che servono. Tutto deve servire, tutto deve avere una sua utilità. E allora si dice: medicina dell’anima. Ma anche questo non è vero. Intrattenimento? Ma quello è terreno dei romanzi. La poesia non intrattiene, ci interroga, ci angoscia, ci chiede di riflettere su di noi. A che cosa serviamo noi ? Ma ancora questo non basta: la poesia è arte antica, (troppo) antica, ancorata all’epoca arcaica di cui raccontava la storia,e poi aggrappata alle vesti delle dame, e poi al buio delle guerre. E oggi? Viviamo in un’epoca degna di fare della poesia la sua eco? E se non è cosi, le nostre semplici esistenze sono abbastanza, sono sufficiente materia di poesia? Non è peccare di presunzione, inghirlandare sensazioni, brevi attimi, riflessioni? Voler renderli momenti alti, scolpirli di parole? Forse sarebbe meglio tacere. O forse no. Forse è questa, la poesia, la lotta tra la nostra umana tracotanza e il dubbio sul silenzio. Forse è questo dissidio che rende la poesia migliore di come potrebbe altrimenti essere. E’ il canto sorridente e disperato di fronte alle rovine. “These fragments I have shored against my ruins”: così finisce la “Terra desolata” di T.S. Eliot. Ecco a che cosa serve la poesia. Mi pare che anche Rossella Tempesta segua questa strada, con l’utilizzo della parola scarna, anche sgradevole, sempre vera, però- e mai compiaciuta. Quella che si ritrova nelle sue poesie è una serenità colorata, mai stinta dalla disperazione che pure è così presente. C’è la forza, con le lacrime agli occhi talvolta, ma la forza di sopravvivere, che vince su tutto, e risponde alla nostra domanda, quella sull’utilità della poesia.
Rossella Tempesta, Libro domestico, Ghenomena
Rivolgersi alle donne, per affermare una esigenza di nuova pulizia, di nuova etica, forse, nella quale appunto le donne parrebbero meglio disposte. Quella sperata è una sorta di ecologia della mente, perché una generazione migliore sappia discernere le ragioni della ragione – si direbbe una ratio fondata sulla parola, sulla necessaria nuova comunicazione verbale, sulla comunione spirituale che la parola consente soltanto fra persone libere, fra persone consapevoli di un ruolo, quello dell’uomo che non sia succube del suo mondo. Anche se – ma è detto con malcelata retorica e contrario – “se rinasco… chiedo d’essere… qualunque cosa tranne l’uomo”. La tentazione è forte, rabbiosa: cedere alla natura e “trovare tutte campagne, un mattino” – un sogno, certo, ma quanto sarebbe bello, ogni tanto, sognare davvero e svegliarsi in una dimensione nuova, fantastica perché paradossalmente terrena, lontano da qui…La poesia di Rossella Tempesta è in questa sua spirale di sentimenti che si avviluppano spesso su se stessi senza scorgere sembra sentieri più semplici a percorrersi, eppure necessari da percorrere, quasi a doversi (o volersi, chissà?) purificare dalla stessa natura femminile, che non sempre è accettata né – come pur dovrebbe essere – considerata bella in sé e per gli altri. Il dettato lirico risente all’apparenza inguaribilmente di questa precarietà, ma in realtà riscatta nella parola tutta la difficoltà di esistere connaturata e acquisita. Nella poesia di Rossella vivono al tempo stesso due esigenze contrapposte: quella della donna, che mal sopporta una condizione umana in generale e femminile in particolare difficile da gestire in un’epoca come la nostra artefatta e spesso squallidamente esibizionistica, e quella della poetessa consapevole del ruolo in qualche modo salvifico o almeno propositivo della parola scritta, del messaggio poetico. Un poeta donna ha il compito, forse il dovere, appunto, un’esigenza di nuova etica, di chiamare a raccolta gli spiriti migliori, e tra di essi certamente le donne in maggioranza – se sapranno evitare (loro!) le sirene ammaliatrici di una società fondata sull’apparenza – affinché si (ri)costruisca un’ipotesi di alternativa alle menzogne e alle illusorie prospettive cui dobbiamo riconoscere oggi, il più delle volte, la forza, la capacità del convincimento. “Un volo pazzesco”, ci attende, a voler uscire dalle ambasce del quotidiano, diretti oltre la siepe finalmente superabile di slancio, quando fossimo pronti, e convinti, “con un po’ di coraggio”, a cercare di là “un’altra anima, e dire basta a questa sofferenza”, riappropriandoci del meglio che siamo: la nostra innegabile dimensione divina. Sì, ancora “si può sperare una resurrezione”(poiché la “rivoluzione” del titolo è solo spirituale, intellettuale), se ci rende conto che “l’amore era la scelta”, la più giusta, la più umana che ci avvicina all’indescrivibile dentro di noi. E allora, “la parola – il nostro marchio deriso – la parola invada a fiumi le strade, la parola parli della ragione”.
*** https://libertadiparolasite.wordpress.com/