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Roberto Tortora

Cristiano Franceschi, Oltre vento e da nessun luogo, Formia, Ghenomena, 2009, pp. 63, € 12,00. Questa raccolta di poesie è una fortezza dotata di "scontrosa grazia", una rocca di compatta eleganza. Ogni testo è un mosaico polito, ma composto da tessere multiformi ed eterogenee che concorrono a destrutturare le abituali produzioni di senso. Accantonato il logos, le immagini regnano sovrane in forza della loro poderosa consistenza materica e riempiono gli occhi del lettore con la prepotenza che le ha spinte alla mano del poeta, con l'urgenza che precede la sistemazione logica; più stranianti di qualsiasi canone interpretativo; più ammalianti della ordinata volontà comunicativa. Sono immagini-oggetti-luoghi che rampollano dalle regioni inaccessibili e indecifrabili del desiderio, dei ricordi, delle scelte. Il poeta, randagio e distratto, è creatura nomade, non insensibile al fascino della sosta eterna, che qui si svela sotto forma di sepolcro, lastra, fossa, urna e tumulo. Il poeta sente la precarietà della condizione umana "(E trascinato da venti che fan  / no alla prima occasione cadere gomene / e sartie, l'ancora e i paranchi inutili / strumenti di salvezza, mi rinnego / allo sbarco)"; subisce, dell'amore, la crudeltà della separazione e dell'assenza: "Sarà dove avere un senso la lingua / solo remoto quel dolore il male / che fra noi è la distanza." Si scopre ora tremante a contemplare un'evanescente figura femminile, ora divorato dal desiderio della carne e quando l'intera vicenda erotica è soffocata da una transitorietà che coincide con la fuggevolezza di ogni tempo, allora si leggono versi che hanno l'evidenza del bassorilievo: "Quei suoi fragili venti di riso / e quella scia velata delle ginestre / che danno l'evento. / Quasi da Bellosguardo / per un attimo il suo preludio / come i polsi dei morti / quando le cose mi abbandoneranno."     Impossibile ricerca di un centro, irta conciliazione di traiettorie esistenziali, impari lotta contro la fugacità della vita "(e un tramontare incerto il farmi varco / sotto l'obliquo tendersi degli anni)": questo magma che non può e non vuole essere comunicato tramite la facile sistemazione dei membri logici della frase, si ricompone poi, sorprendentemente, in una misura linguistica e poetica che costituisce la cifra stilistica di Cristiano Franceschi. I testi, infatti, si distendono in calibrate eppure innovative esplorazioni sintattiche, si consolidano in strutture metriche omogenee e spesso tradizionali, dichiarano la propria identità in endecasillabi e sonetti. La simmetria delle strofe, l'alternarsi delle rime, la scansione degli accenti diventano così le note riconoscibili di una musicalità che cattura fin dalla prima lettura e questa diffrazione, tra nitore formale e deflagrazione semantica, rappresenta la peculiarità del linguaggio di Franceschi.    
     
in Arenaria 4, Collana di Ragguagli di Letteratura moderna e contemporanea, a cura di Lucio Zinna, 2010                                                                                                                                                                    



Pubblicato da Piera Mattei a 07:39

Un libro di poesie dedicato a una donna, non con un semplice esergo ma con l'acrostico che introduce la raccolta. Dunque, da subito, abbiamo la presentazione di un canzoniere (poesie d'amore e di lontananza), da subito il desiderio, la sensualità sono protagonisti, ma rinserrati in forme chiuse: sonetti e madrigali con stretto controllo dei metri e delle rime. 
L'autore di queste poesie è lo stesso fotografo che, sulla copertina, colloca un'immagine notturna. Un luogo centrale di Roma, il ponte Duca d'Aosta, vi è quasi irriconoscibile, tanto la foto è limpida, perfetta, e l'immagine, nella sua perfezione, "altra" da quanto normalmente si vede. Sempre in quella foto un dettaglio inquietante: i fari accesi di un'automobile che sembra parcheggiata, sotto il ponte, in cima a un'ampia scalinata.
Ho riferito di quella foto in copertina perché vi leggo, come in altre opere fotografiche di Cristiano Franceschi, la metafora visiva della sua poesia, che costringe l'angoscia pulsante, l'enigma che assilla, nella misura del metro, nella forma accurata e netta.
Del resto la forma chiusa e la rima sono, nell'uso del poeta abile e accorto, per l'orecchio addestrato, lo strumento mediante il quale la lingua scopre da sé la via al discorso che urge, o addirittura lo suscita. Nella seconda strofa della poesia di pag. 11 c'è infatti il riferimento a un "cantare a braccio", anzi direi che l'intera strofa costituisce nel suo insieme una dichiarazione di poetica e un programma esistenziale: Come soltanto un verso preso al laccio / e a sopravvento per l'ostile intorno / delle mani e del mio cantare a braccio, / ho messo all'ancora il vagar del giorno / dov'è sicura la fonda e l'abbraccio / imbarchi il fuoco e il piacere adorno. Un programma esistenziale che avrà quale durata? "Ho messo all'ancora il vagar del giorno": per quanto tempo resterà agli ormeggi una vita che cerca da sempre, ma non riesce a trovare, il luogo dove sistemare i suoi Lari? I luoghi qui citati, vissuti, sono molti. A cominciare da Firenze: Santa Croce, gli Innocenti, Duccio, Via delle belle donne, ma anche la bassa Toscana, Chiusi, Siena, Bagno Vignoni, poi Roma, alla Stazione Termini. Tra i molti ancoraggi, il riferimento a un altrove linguistico nelle poesie in tedesco, idioma che potrebbe rivelare l'Heimat originale e insieme additare un altro termine delle molteplici, irrisolvibili contraddizioni. Nelle metafore, infine, il mare, le acque compaiono come atavico ricordo del viaggio, dell'espatrio, forse della fuga senza sapere verso cosa e a causa di chi: E' un porto come tutti gli altri, ma / pesantemente nei canali domina / quel muschio di bonaccia che si fa / nera insolenza […] E trascinato dai venti che fan- / no alla prima occasione cadere gomene / e sartie, l'ancora e i paranchi inutili / strumenti di salvezza.
Ancorarsi, o rifiutare di scendere a "un porto come tutti gli altri"? Speranza e disperazione si sovrappongono, fino a corteggiare la follia e la morte: Conviene l'omicidio, soluzione / di originale freschezza, modesta / come fanciulla irritabile, clone / del desiderio furioso di Vesta.[…] quel cielo capovolto e quelle fate / ranicchiate sull'angelo, cura- / no della morte anime disamate. Versi assai belli, che "curano" a loro volta la disperazione e, nella loro aperta cantabilità e chiarezza, contrastano con l'enigmaticità di molti versi dove la rima onnipresente spinge alla scoperta d'assonanze e immagini, anche strane.
Dovunque la parola è in caccia dell'amore, dell'eros, non come annientamento ma come ipotesi di rispecchiata identità e, finalmente, d'immobilità. Ma l'immobilità non è anche la fine, la morte? Bellissima fanciulla, / Dolce a veder non quale / La si dipinge la codarda gente, / Gode il fanciullo Amore / Accompagnar sovente. La citazione leopardiana dal canto Amore e Morte, che liberamente si affaccia, mi aiuta a definire lo stile e l'ispirazione di Cristiano Franceschi come poesia fondamentalmente classica, nella forma e anche nelle tematiche. Giudizio che rimane saldo, e non contraddice a un primo approccio con questi versi piuttosto aspro, difficile. Perchè l'armonia, come le fate che ho dianzi citato, è presente ma nascosta, e si richiede al lettore di andarla a stanare, mentre se lei se ne resta immobile, ranicchiata "sull'angelo".
Piera Mattei


Lettera

Lettera di Barberi Squarotti a Franceschi, Torino, 15 maggio 2010