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Rodolfo Di Biasio, Mute voci mute

Marco Vitale

Mentre scorrono sugli schermi accesi nelle nostre case, e sulle pagine dei giornali che la mattina compriamo in edicola le immagini atroci delle devastazioni della guerra, degli esodi, dei naufragi, dei ventri gonfi dei bambini scheletrici nei campi di raccolta, cosa può fare la poesia? È la domanda cui Rodolfo Di Biasio, all'appuntamento con i suoi “sedici lustri”, tenta di rispondere con gli strumenti di cui dispone, che sono appunto quelli del poeta. La risposta viene da questo antico e nuovo retablo diviso in tre pale: la guerra, la fame, la peste. Nuovo perché lo sguardo, senza per questo farsi cronaca, si posa sulle distruzioni del nostro tempo; antico, perché ne riscopre il tratto comune nel proprio solco di esperienza, che è esperienza personale e collettiva di non molti decenni fa, e tuttavia ha radici remote, e parrebbe a volte immutabili, nel corso della Storia. La guerra, i morti ammazzati e frettolosamente sepolti, la fame, l'umiliazione che tale quadro comporta, Rodolfo Di Biasio li ha conosciuti da bambino, crescendo in un paese posto su uno dei fronti più sanguinosi della Seconda Guerra Mondiale, la cosiddetta linea di Cassino. E per dimostrare come quell'umiliazione sia la stessa provata oggi da milioni di nostri simili ha “montato”, in un'agile struttura poematica tripartita, frammenti lirici di suoi precedenti lavori con nuove attuali tessiture poetiche, meditazioni in versi alla ricerca di un filo comune. La prima sezione del libro (la guerra) si apre infatti con una citazione da una raccolta del 1977, Le sorti tentate: sono i primi otto versi di una poesia - allora alla pagina 30 - che viene adesso spezzata da una nuova sequenza; al termine della sequenza ritroveremo gli ultimi cinque versi. E sono versi che con l'incisività di un'acquaforte dicono la desolazione di una terra martoriata dagli eserciti che se la contendono, mentre la popolazione civile è allo stremo: “- ricordo di quelle ore i morti / che soldati portavano a dorso di mulo / a macerare sulla scarpata / per salvarli dal graffio dei corvi / dai cani che non avevano più casa -” . Quanto al nono e decimo verso della stessa poesia (“perché non ebbi intera / la mia porzione di carne e latte”) migrano, lievemente modificati, all'incipit della seconda sezione (la fame). E va qui detto che tra l'antico e il nuovo testo la fusione si mostra di sorprendente continuità, nel mobile cambio di visuale, passando dal ricordo ai nostri giorni (“Lontano è il tempo della guerra / mi volli poi dire / e ingannai me stesso”). E ciò malgrado la raffinatissima misura di un libro come Le sorti tentate, prossimo alla stoffa di un Libero De Libero, si sia venuta negli anni rastremando, come rasciugata da un'urgenza del dire che trova in quest'ultima raccolta la sua drammatica ragione. Non altrimenti la progressiva sottrazione del colore nell'ultima maniera di Filippo de Pisis, un colore dosato dal maestro per minime suggestioni e per questo tanto più parlante. Così, se la peste si presenta oggi come desertificazione del pianeta azzurro, hybris della tecnica, distruzione di un paesaggio che ha radice e necessità nei secoli, la stessa tonalità elegiaca del ricordo si fa poesia civile, termine di confronto eloquente e non per questo meno delicato, nel raccordare l'uomo e la Natura in un sogno a cui si vuole ancora credere: “Raccontare, questo solo posso raccontare / di un tempo quando era dolce l'estate / bere con le mani dal fiume / e che staccare la mela dal suo ramo / era il rito sicuro della vita / la mela già assaggiata dal passero / e pronta per il morso del bambino”.

Gradiva



Luigi Fontanella   

In quest’ultimo scorcio d’estate sono andato centellinando, verso dopo verso, un bellissimo poemetto di Rodolfo Di Biasio: Mute voci mute (Ghenomena, 2017),summula quintessenziale del poeta, narratore e studioso formiano, quest’anno giunto all’età di ottant’anni, al quale porgo, pubblicamente, i miei calorosi auguri di Buon Compleanno.  Tre i “rovelli” attraverso cui Di Biasio articola la sua rogazione: la Guerra, la Fame, la Peste. Sono loro a costituire l’eterno dolore del mondo, fin dai tempi in cui l’umanità è venuta alla luce. È lo stesso autore a dichiararlo nella toccante Nota finale: «Sono passati secoli e l’uomo si trova sempre di fronte alla guerra, alla fame e alla peste. La nuova peste è l’avvelenamento del pianeta: è una peste di cui siamo tutti untori».  Da qui la dolente meditazione di Di Biasio: un canto struggente alla Terra che ci ospita – ricordo per inciso che proprio Poesie dalla terra s’intitolava uno dei suoi migliori libri incipitali (1972), uscito in quella mitica collana di poesia, amorevolmente diretta da Romeo Lucchese per l’editore De Luca a Roma, che nei primi anni Settanta ospitò poeti italiani tra i più nobili e indipendenti (Libero de Libero, Giorgio Caproni, Fabio Doplicher, Lanfranco Orsini, Carlo Felice Colucci, ecc.) – una Terra che noi stessi andiamo disfacendo, guastando, irreparabilmente corrompendo. È un canto, profondamente ed essenzialmente elegiaco, che non può non rivolgersi al Passato, quel passato che nella mente fervorosa di Rodolfo non è finito ma continua a parlarci (torna di colpo alla memoria una celebre annotazione di Faulkner in Requiem for a Nun: “The Past is never dead. It’s not even past”); quel Passato che può rifiorire come auspicabile moto di rinnovamento della nostra natura, malgrado lo sciupìo costante a cui essa viene quotidianamente sottoposta.  Di Biasio rivive i momenti più terribili della Guerra da lui vissuti da bambino: il suo stupore misto a terrore, quel senso diffuso di smarrimento, gli angosciosi ricoveri nel buio di una stalla, «Mi furono sola compagnia / il buio della stalla per ricovero / i fiati caldi, il fetore del chiuso, / un remoto cielo // Il sole era fuori / inarrivabile / vano esso splendeva / ‒ ricordo di quelle ore i morti / che soldati portavano a dorso di mulo / a macerare nella scarpata / per salvarli dal graffio dei corvi / dai cani che non avevano più casa ‒» (pp. 12-13). Il tutto avveniva sotto quel cielo dei monti Ausoni e Aurunci, azzurrissimo, che mai veramente appartenne al bambino Rodolfo («Quel sole non mi appartenne mai»).  Binomio inscindibile dalla Guerra fu la Fame, quintessenziata in quel tedesco tozzo di pane nero il cui sapore sarebbe rimasto sigillato, indelebile, nella bocca di quel bambino, troppo precocemente diventato uomo adulto, fornendogli nutrimento e pietà.  Culmine straziante è la terza parte di questo elegante libriccino, dedicata alla Peste. Ne riporto la prima strofa (pp. 20-21): «La peste è dell’anima / vi si annida / vi scava purulenti anfratti / e apre a un tempo malcerto / Né giunge a segno / la parola salvifica / Siamo stati untori di noi stessi / Viviamo una terra / dove il vento / in un buio cielo soffia / plastiche una ferrosa polvere / e a folate intristisce pini marini».  Compendio estremo, altamente emblematico e intratestuale della poiesi di Di Biasio, Mute voci mute conferma definitivamente la qualità, il pudore e la coerenza di un poeta saggiamente rimasto fuori da ogni cricca e combriccola di parte, con una sua personalissima voce, netta, polita e distillata. 



Lucio Zinna

Nuova opera di Rodolfo Di Biasio, autore di sillogi liriche particolarmente pregevoli, da Niente è mutato (1962) a Poesie dalla terra (1972), Le sorti tentate (1977), I ritorni (1986), Poemetti elementari (2009); del 1999 è l’ampia raccolta antologica Altre contingenze. Una produzione connotata da peculiare finezza espressiva e da una sottesa eppure evidente vocazione poematica, alla quale il poeta approda tout court nel 1995 con Patmos, poemetto tra i suoi lavori più rilevanti. Testi densi di significati e significazioni, a valenza esistenziale, attenti alla contemporaneità e al quotidiano nonché a quanto possa condizionarli o superarli. La memoria figura come elemento primario. Giungono ora queste Mute voci mute ed è, come in Patmos, l’aperta dimensione poematica a prevalere. Le “mute voci” sono quelle che ci pervengono dalla storia ma che non sappiamo ben ascoltare. La storia allorché non riesca a farsi magistra vitae. Sono le voci di ogni esperienza che, pur gridata, non produca i frutti sperati (e l’accoramento per tutto ciò può cogliersi, già in titulo, nell’intervallata reiterazione aggettivale). Il poemetto è suddiviso in tre momenti: “La guerra”, “La fame”, “La peste, quasi un polittico medievaleggiante di alta dignità, calato nella realtà contemporanea e filtrato nella sensibilità dell’uomo di oggi e del poeta. Immagini tragiche della nostra plurimillenaria vicenda, rievocate ora sovrapponendo ora alternando aspetti comuni e aspetti personali. Per il poeta, nato nel 1937, guerra e fame sono riconducibili a personale esperienza. Dal vissuto di quegli anni d’infanzia deriva la malinconia che gli è rimasta cucita addosso come «una seconda pelle», curvandogli le spalle e velandogli «il sorriso degli occhi»; all’insistito spettacolo della morte il fanciullo deve prematuramente l’acquisizione della «certezza del dolore della vita». Un’infanzia trascorsa in tempi di pace, diciamo pure normali, non è pari a un’altra vissuta in clima bellico (e post bellico immediato). Un forte imprinting. Chi ha esperimentato in teneri anni a convivere con la fame, non riuscirà ad obliarla, anche in periodi di opulenza. Non evocata, affiorerà improvvisa, saprà farsi scorgere ovunque. Il poeta dice delle immagini trasmesse sul video di bimbi di «altre terre», ai quali possono contarsi le costole. La peste, infine. Il flagello che, in secoli trascorsi, a ondate imprevedibili, disseminò il pianeta di cadaveri. La ‘morte nera’ fattasi poi memoria collettiva, metafora del negativo dilatabile, di ogni tarlo che s’insinui in noi, ci sconvolga e ci corrompa. Oggi la “peste” non è più quella che fa sorgere bubboni nel corpo, ma circola in forme diverse. È, ad es., il paesaggio deturpato, è la natura offesa, osserva il poeta, il quale parla anche di una “peste dell’anima”, a cui non è difficile ricondurre le nostre cattiverie, corruttele, omissioni, indifferenze etc. o il nostro celare sotto falsi alibi problemi cogenti (e cocenti). Un’opera che, puntando con lirica icasticità sulle “voci mute” della storia, da questa nasce, maturata nelle ripercussioni che genera nel soggetto. Dolorose, amare suggestioni della storia, qui divenuta arte e in quanto tale collocabile al di là di se stessa: nel tempo, certamente, e fuori di esso, in una dimensione che la trascende, non più legata al suo specifico cursus temporale – che è necessariamente “quel” tempo, “quel momento” storico – bensì operante nel peculiare in omne tempus della poesia. Una plaquette di poche pagine con lo stigma dei capolavori, delle opere destinate a rimanere (anche senza apporto di grancasse mediatiche), che possiamo definire «un varco verso la luce», avvalendoci di un‘espressione mutuata dallo stesso poeta, da lui usata per acqua ed erbe e creature celesti, marine e terrestri, quali beni da non dissipare. Come del resto la poesia. (l.z.)

Arenaria 2017



LINO ANGIULI 

Bari li di vino migliore sta nelle botti più piccole: un motto che possiamo adottare a proposito della sottile plaquette che, nei paraggi del suo ottantesimo compleanno, ci viene dal poeta di Formia, abituato a centellinare le sue `uscite' grazie all'esercizio del rigore e alla ricerca di profondità che hanno contraddistinto l'intera sua vicenda letteraria. Si tratta di una plaquette dedicata ai quattro nipoti, attraverso i quali il `nonno', alla luce della propria esperienza storica ed esistenziale, intende consegnare anche al lettore il senso di una vita e della vita, scandito in tre poemetti che, insieme, impegnano appena 14 pagine. I poemetti hanno per tema, nell'ordine, la guerra, la fame, la peste, i tre mali — ci informa l'autore in una succosa nota conclusiva — dai quali, lungo il tenebroso medioevo, si chiedeva a Dio di essere liberati mediante un'apposita rogazione: a peste, fame et bello libera nos, Domine. Sono tre mali che il poeta stesso attualizza, con riferimento diretto a quanto egli ha vissuto in epoca moderna, avendo egli conosciuto sulla propria pelle le follie della seconda guerra mondiale, la fame che accompagnò le ultime fasi italiane di quella guerra, le tante pesti (consumismo; disastri ecologici; chiusure egoistiche; invasive idolatrie) da cui il nostro tempo è abbondantemente circondato. Attualizza e condivide, giacché, al di là dell'esperienza personale e del vissuto privato, questi mali circolano tra di noi e ci rendono «untori di noi stessi», abitatori di «case piene di gelidi amuleti», in una sorta di waste land che solo una consapevole compassione e una convinta nonché diffusa misericordia possono illuminare di possibili speranze. Sono tre “dolori della Storia” che Di Biasio attraversa, chiedendone conto, più che a Dio, all'umanità dei giorni nostri, un'umanità smarrita e sorda, incapace di ascoltare «le mute voci mute» che, ossimoricamente, approfittano del sempre più raro silenzio per superare la barriera del rumore e chiamarci a riflettere, e invitarci a cambiare la rotta, e aiutarci a guardare in faccia le tragiche contraddizioni che cerchiamo di rimuovere per non farci carico di responsabilità soggettive / collettive. Sono le voci di tanti, troppi, nostri simili colpiti da mala sorte e morti di mala morte; voci che aspirano a parlare con le parole della nostra coscienza. Tre ferite profonde e indelebili che procurano ancora sofferenza e che trovano conferma e rispecchiamento in ciò che accade sotto i nostri occhi distratti, a due passi dalla nostra mente appannata da una dopata superfluità. Di fronte a questo scenario, che sa mettere insieme ieri, oggi e domani, la poesia fa la sua parte evitando retorici “trucchi” e mirando all'essenziale per fare in modo di coincidere con la vita. Essa, infatti, è quasi sempre incastrata in quella difficile condizione che mette di fronte vita e letteratura in una partita in cui molto spesso è la seconda ad aggiudicarsi l'esito del confronto a danno della prima. In questa smilza ma essenziale plaquette, invece, vita e poesia possono darsi la mano fino a raggiungere il mirabile e raro traguardo della coincidenza.

in INCROCI, luglio - dicembre 2017 n.36,


Simone Lucciola

Prendiamola alla larga, considerando la poesia come se fosse musica contemporanea. Consideriamo ogni libro pubblicato un LP full length, ogni plaquette un EP 7”, ogni poesia una canzone: se è vero che ogni raccolta rappresenta in ogni caso una porzione specifica e documentaria della vita di un autore, Rodolfo Di Biasio sarebbe dunque un musicista con una discografia minuta ma essenziale, di quelli che per intenderci non incidono senza ispirazione, né per onorare un contratto. Il suo Patmos, del 1995, rientrerebbe di diritto nell’albo dei capolavori indipendenti acclamati all’unanimità dalla critica, e a questo punto riceverebbe – come effettivamente riceve – una serie di premi alla carriera, mentre licenzia ristampe per accontentare i fans che non riescono più a trovare i suoi vecchi lavori nei negozi senza pagarli cifre spropositate presso il mercato collezionistico. Contemporaneamente, si cimenta nell’ennesimo capitolo inedito, fedele al suo genere musicale che è il poemetto, e riparte da alcuni frammenti essenziali di importanti composizioni precedenti, estrapolando dal proprio repertorio classico dei cavalli di battaglia da utilizzare come fondamenta per la struttura del nuovo Mute voci mute. Come definire in gergo questo tipo di operazione? Se si trattasse un autore differente, che da Di Biasio ha tratto ispirazione, allora si parlerebbe di una cover, ma trattandosi dell’autore originale, sarebbe ben più lecito usare il termine di remake: questo se non fosse per il dettaglio, non trascurabile, che i brani di partenza seguono improvvisamente un’altra partitura, il testo cambia, e i pezzi nuovi così ottenuti fanno parte di un breve concept album ripartito in tre sezioni sulla scia del progressive rock degli anni ’70 (La guerra, La fame, La peste: a peste, fame et bello libera nos, Domine!). La definizione più adeguata per le tre sezioni di questo poemetto sarebbe quindi senza dubbio quella di alt version: sono in effetti delle versioni alternative di alcuni vecchi successi del cantautore Di Biasio, con la differenza che mai – e dico mai – nella storia della musica contemporanea si era vista prima d’ora una alt version superiore all’originale. È il potere straordinario dell’esperienza retroattiva, del resto, il senso profondo di questo remix, che torna al rovello primario dell’autore – l’infanzia negata dalle contingenze belliche, la decadenza della civiltà contadina, sostituita da un nuovo mondo senza autocoscienza né pietà, dove siamo stati, e siamo, untori di noi stessi – e lo ricontestualizza, dall’aquila dei suoi arrivati ottant’anni, in una dimensione di futuribile, incrollabile prospettiva di retour à la raison. Questo e solo questo, forse, il motivo di tensione per cui la poesia – come riportò a suo tempo Giacinto Spagnoletti, citando un Di Biasio precedente e dando (forse) involontariamente il la a questo, nuovo formidabile capitolo discografico in forma di EP – scrive riscrive la sua storia. Il resto non è nulla che non troverete tra i solchi del vinile.

Mario Adda Editore, deComporre 2017



[Stelvio Di Spigno]

Mute voci mute. Con questo titolo tautologico, che sta a significare il silenzio reiterato delle cose che più comunicano all’uomo, nella dimensione del singolo e del collettivo, esce la nuova, inaspettata, folgorante raccolta di poesia di Rodolfo Di Biasio. Nove anni dopo i Nuovi poemetti, e ben ventidue anni dopo il suo ultimo, grande urlo poetico costituito da Patmos. Ma di cosa parla questa nuova raccolta? Della peste. Della peste che è nell’uomo globalizzato e che si estrinseca nelle azioni di tutti noi, volte solo a distruggere il pianeta col mezzo infame dell’inquinamento. Ma non è una poesia soltanto militante. Non è nella più pura ispirazione di Rodolfo. Il poeta ricorda la sua infanzia, segnata dalla guerra. Un’infanzia non vissuta, violentata e annichilita dalle bombe e dalla terra contorta dalle visioni belliche. Per un poeta della memoria come Di Biasio, una sorta di gran sortilegio che ha segnato l’intera esistenza. Sì, perché quella guerra che il poeta ricorda da bambino, ora si replica nella guerra che gli uomini di questo tempo muovono alla propria terra, al pianeta intero, al clima, alla purezza delle stagioni, alla bellezza incorrotta della natura. Ecco la “peste”. Non il semplice inquinamento, che pure ha avuto tra i suoi corifei un poeta come Caproni, nel suo Res amissa. Ma il male che l’uomo fa a se stesso, senza saperlo, senza neanche accorgersene, in un’orgia di castrazione e goduria consumista che sta annientando la nostra patria comune, il Creato. Da essere religioso, quale è sempre stato, Di Biasio emette questo ultimo grido urlato nel deserto, questo grande ricordo di un mondo puro devastato dalle iniquità umane. Liberaci dalle peste, Signore, si legge in epigrafe. Ma per esserci un Dio, c’è bisogno di una figura umana. Per esserci una figura umana c’è bisogno di una cultura umanistica. Non ci sono più, né la prima né la seconda. È questa la grande tragedia denunciata in questo piccolo grande libro. Aspettando che qualche divinità ascolti questa invocazione disperata, anche noi lettori, tra epos ed elegia ritorti, ci associamo alla sua dolente sfida per salvare il salvabile. Ammesso che sia ancora possibile.

deCOMPORRE 2017

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