Barbara Carle Tangible Remains - Toccare quello che resta - Ghenomena, 2009.
Francesco D'Alessandro
Immaginiamo un mondo distrutto, deflagrato; immaginiamo un superstite che s'aggiri, tra le rovine, tra gli oggetti sparsi intorno a sé; immaginiamo che si rivolga a quegli oggetti per ricostruire una memoria possibile della propria vita perduta, e si muova tra di essi affidandosi al tatto, toccandoli, palpandoli, sentendone spigoli o curve, asperità o levigatezza di superfici, la forma intera per ritrovarne memoria in se stesso, alleviando con ciò la propria solitudine. «Anche il tatto ha memoria», dice un verso di Keats. È l'aura che spira in questo libro - tema: gli oggetti, «reliquie [... ] sopravvissute ai vari crolli delle civiltà». Autrice ne è Barbara Carie, poetessa e traduttrice americana (al suo attivo versioni da diversi poeti italiani), che da noi si era già messa in luce con un altro libro, Non guastare la mia bellezza (Don't Waste My Beauty, traduzione propria e di Antonella Anedda), pubblicato da Caramanica nel 2006, dopo che, nel 2000, aveva vinto il Premio Frascati, 'sezione Italo Alighiero Chiusano'. Nel libro, viene offerto al lettore un vasto campionario di piccoli e grandi oggetti d'uso quotidiano: da una vasca da bagno a una sedia, da un pettine a un ago, a un cucchiaio, a una finestra, e lo si invita oltretutto a riconoscerli dalle descrizioni, per niente realistiche, che se ne danno (e che sembrano suggerite dal tatto, o, come si diceva, dalla memoria del tatto), rese in versi di pregevole fattura. In altre parole, il lettore non sa di quale oggetto si sta parlando, perché le poesie sono senza titolo; ovvero, il titolo c'è, ma si trova nell'indice e questo, che sembra un gioco - perché non si esclude un aspetto anche ludico in questa scelta: dirò tra poco il motivo -, costringe la sua sensibilità a mettersi al servizio del testo, per ricreare in se stesso la memoria dell'oggetto. Un'altra particolarità del libro è quella di non avere una traduzione italiana, almeno non una versione tradizionale e non per mano di terzi. Infatti, nel frontespizio leggiamo: "poesie in inglese e in italiano". Ciò vuol dire che l'autrice stessa ha provveduto a trasferire in italiano i suoi testi inglesi, ma non traducendoli alla lettera, piuttosto riscrivendoli, cosa chiara fin da subito, ad apertura di libro. Leggiamo la prima poesia (la sua brevità consente di trascriverla per intero); in inglese dice così: Achilles the survivor íncarnates / myths of grace - / painted with finesse / Homeric clashes / ornament the curved vase. / Raising theír shields these warriors / accepted the geometry of death. Ma in italiano suona in modo ben diverso (e, secondo me, anche più bello): Al superstite Achille il compito / narrativo di incarnare i miti della grazia - / fabbricati coi dipinti gli scontri / omerici figurano sulle curve. / Rialzando gli scudi questi guerrieri / accettarono la geometria della morte. (Detto tra parentesi - e ecco scoperto il gioco al quale accennavo qualche rigo fa -, se si leggono le lettere iniziali dei versi, in inglese e in italiano, ci si accorgerà che in esse è svelato il nome dell'oggetto del quale si parla: "Anfora"; e l'espediente dell'acrostico si ripete anche in altre poesie. Diverso ma non dissimile è il gusto per l'ideogramma, la forma della poesia che riproduce l'oggetto rappresentato: si possono citare ad esempio i versi brevissimi, quasi verticali di "Matita", o quelli di "Chiave", o di "Cavatappi e tappo"). Sullo scudo di Achille, si sa, era rappresentato il mondo; e molto sappiamo di usi e costumi d'altre civiltà grazie agli oggetti e alle scene dipinte su anfore e vasi. Se è vero che i luoghi iniziano a parlarci dalla soglia, ciò vale ancor più per i libri. La breve poesia riportata introduce benissimo al libro, ma tale funzione è meglio evidenziata dalla versione italiana. Anche in altre parti, la diversità tra inglese e italiano manifesta piccoli scostamenti di senso, leggeri scarti d'intonazione. Ecco, ad esempio, due versi tratti dalla quarta poesia, intitolata in italiano "Foto in bianco e nero": The six-year-old poses his arm / protectively around the three-year-old. Si parla, si capisce, di due bambini in posa per la foto del titolo, e dell'atteggiamento, affettivo più che protettivo, del grande verso il piccolo. La traduzione, se di traduzione si fosse trattato, sarebbe stata, forse: Quello di sei anni protettivo / tiene il braccio intorno a quello di tre. Ma nella versione italiana leggiamo: Quello di sei anni protegge / il fratellino di tre anni col braccio. Lo scarto di senso è tutto nella descrizione del gesto, dunque. Nell'inglese, come si diceva, un moto spontaneo d'affetto nel mettersi in posa; nell'italiano, invece, l'immagine è più inquietante: sentiamo che il gesto è davvero di difesa, di protezione, quasi che il braccio non circondi le spalle del piccolo, ma si frapponga fra questi e un pericolo incombente; di seguito si capisce, poi, che un sentore di minaccia c'era ed era reale, anche se a distanza d'anni e a parti invertite; dunque i versi in italiano sono più chiari, addirittura profetici. Un altro esempio: nella sesta poesia, "Bottiglia", l'espressione più forte e pregnante, per senso e per suono, è in inglese: "the smell of darkness", e viene resa in italiano con "l'aroma del buio", che è immagine molto più sfumata, sia nel sostantivo sia nel complemento di specificazione; che non vuol dire meno bella, certo diversa. Questo, ancora una volta, dimostra che è comunque la lingua a modulare il tono, a impostare attitudine e senso. Ed ecco perché, spesso, secondo il noto bisticcio, il traduttore è un traditore. Non è il caso di Barbara Carie, la quale sa bene cosa sta facendo e sa ancor meglio dove vuole arrivare. Infatti, altri esempi si potrebbero trovare e tutti dimostrerebbero la ricchezza di timbro e di ritmo che, come si diceva, la lingua stessa offre alla sensibilità del poeta e che la Carle è brava a sfruttare a proprio vantaggio, in inglese come in italiano.
Insomma, stiamo parlando di un libro bello, di un canto nostalgico d'amore per le cose, come scrive nella breve nota di chiusura Domenico Adriano; che aggiunge - con ciò legandosi alle parole di Ponge poste in esergo al libro -: «ogni `reliquia' infine è vista sempre come per la prima volta». È il "compito narrativo" che spetta al poeta - e con lui al lettore -, come ad Achille col suo scudo: raccontare il mito delle cose dal principio, spiegare "la geometria della morte"; e, se le cose 'sentono', esprimerne la disperazione dopo la catastrofe, ma, attraverso il tatto che ricorda, ricrearne anche la grazia, ovvero, restituire loro la forma, e con la forma il senso.
Poetry
Barbara Carle, Tangible remains / Toccare quello che resta, Formia, Ghenomena, 2009, pp. 128, € 15,00.
Lucio Zinna
Barbara Carle (nata in Pakistan e vissuta nel Nord Africa, in Asia, in Sud America e in Europa), italianista e docente della California State University di Sacramento, inaugura, in raffinata veste editoriale, la collana di poesia della nuova ed esclusiva casa editrice Ghenomena di Formia, con una singolare silloge di cinquanta testi in lingua inglese e traduzione italiana curata dalla stessa A. Ciascuno di essi è contrassegnato da un numero progressivo, mentre la relativa titolazione è riportata solo nell'indice, per evitare che, nella lettura, il testo potesse 'riassumersi' nel suo titolo.
È il titolo del libro a rivelare, nella sua immediatezza, l'attenzione della poetessa ai molteplici e, appunto, tangibili, aspetti della realtà circostante, che si presentino a noi quali «reliquie» (come è precisato un una nota «Al lettore») di centinaia o migliaia di anni, sopravvissute ai vari crolli di civiltà e, aggiunge l'autrice, «vorremmo immaginarle superstiti del prossimo blackout».
Una poesia della concretezza, dunque, dopo le tante dissolvenze novecentesche nelle arti e nelle lettere (astrattismo, surrealismo, informale, nonsense, neoformalismo etc.). E di fronte al reale la poetessa si colloca, con i grandi timoni di cui dispone la nostra corporeità, il nostro essere, che sono i cinque sensi e soprattutto il sesto. Un' inversione di percorso, nella sottesa (in quanto implicita) considerazione che non si possa giungere all'astrazione (ab trahere) se non partendo – traendo – dal concreto e non recidendo i ponti con esso.
Il reale è osservato, pertanto, nei suoi aspetti minuti, a volte anche umili, che ne definiscono i contorni e la pregnanza, il loro senso riposto, la loro radicale significanza, alla scoperta dei fili segreti e profondi che intercorrono in ogni frammento del cosmo, al di là delle distanze di tempi, spazi e dimensioni. Le sensazioni, dunque, come input, come patrimonio di sollecitazioni (e, conseguentemente, di ispirazione, se vogliamo usare questo termine, nella sua valenza, più che altro, didascalica), per stabilire un dialogo, palese o recondito, tra tangibile e intangibile, tra visibile e invisibile, tra voce e silenzio.
Abbiamo così poesie dedicate alla bottiglia, al bicchiere, al tappo e al cavaturaccioli, alla candela, alla sedia, al pettine, alla lima, alle forbici, a carta e matita, a una foto, a dipinti e così via. Ma anche a presenze vegetali e loro derivati (eucalipto, mango, ulivo, olio d'oliva, tulipani, mughetti) e animali, come nelle finissime poesie dedicate alla gatta siamese Shakti e al Chatoyant Crhysoberil (Occhio di gatto crisoberillo). Si indovina la presenza dell'uomo, anche se, nella sua dimensione fisica, compare solo tangenzialmente.
Il grande pittore e incisore Giorgio Morandi può offrirci un exemplum delle altezze a cui possa attingere l'arte anche prescindendo dalla trattazione dei cosiddetti 'grandi temi' (le sue bottiglie e i suoi bicchieri sono capolavori); possiamo anche fare riferimento alle Odas elementales di Pablo Neruda. Il bello della poesia consiste, fra l'altro, nella sua capacità di raggiungere alte vette tanto con L'Infinito di Leopardi (che muove, com'è ben noto, dalla concretezza della «siepe» e si inoltra, senza limiti, nel suo superamento) quanto con l'Ode alla cipolla del poeta cileno.
Una poetica degli oggetti in cui questi sono liricamente e lucidamente indagati (in un linguaggio essenziale, mobile, incisivo) per coglierne forma e sostanza, la loro pertinenza a una realtà più vasta e alta. Anima rerum, si direbbe. Poesia delle cose, poiché c'è poesia nelle cose, tutto sta nel riuscire (e qui si misura il poeta) a farla sprigionare da esse, liberarla, in un'operazione maieutica che la parola risignificata nel verso rende possibile. È così per la nostra poetessa: «La mia scopa possiede questo forte odore dell'aperto / smuove la mia casa col profumo di erica / spazzola via la polvere grigia con piume solari». Gli occhi del gatto: «i suoi cristalli / acquistarono virtù imparando / a catturare la luce e a trasformarla / in una via lattea. Ora nella sua pupilla splendono / inconcepibili distese di tempo / una minuscola galassia / brilla nel suo duomo». L'Eucalyptus si fa sintesi di equilibrio cosmico: «tra la terra e l'aria / tra il mobile e l'immobile, la luce e il buio. / Se colleghi tutti i suoi punti, realizzerai / un ampio cerchio di terra, acqua e fuoco.[...] Rasserena e purifica / con l'aroma unico / e porta l'equilibrio all'anima / con la sua essenza benevola e terapeutica.» E basta un semplice rettangolo di carta, una foto in bianco e nero che ritrae due fratellini in riva al mare, per leggere dentro – intra/vedere – il destino stesso dell'essere umano, nell'inafferrabile e imprevedibile mistero dell'universo.
SEDIA, FORBICI SCIARPA... GLI OGGETTI IN VERSI
L. Rafanellli
È certamente originale il libro bilingue Tangible Remains - Toccare quello che resta di Barbara Carle, che inaugura una nuova collana di poesia dell'editore Ghenomena di Formia. È un libro sulle cose di cui ci serviamo: sedia, guanciale, forbici, sciarpa, scarpe, finestra, ecc. È un libro curioso che si può quasi intendere come un gioco enigmistico, perché le poesie non sono titolate e quindi si può cercare di indovinare a cosa l'autrice si riferisce. Ma, attenzione, non è un libro che sa di divertissement, sono poesie che ci calano nella quotidiana vita, nel bisogno di strumenti necessari, nella dimensione semplice delle necessità; ma pure dicono del fluire del tempo. Quella tenaglia che ci incalza e a cui paradossalmente loro, le cose, in buona parte è destinata a resistere. Sono le «reliquie che esistono da centinaia o migliaia di anni e sono sopravvissute ai vari crolli delle civiltà» e che, intatte o logorate, conservate o meno, ci sopravanzano da generazioni e sono la testimonianza di una applicazione umana infinita.
Liberal, 23-10-2010
Toccare quello che resta
Essenzialità di forme come accensione e incandescenza Luca Benassi Non c'è ingegnere svizzero che potrebbe migliorare la perfezione primordiale di una ciotola o di un bicchiere, la compiutezza di una forchetta, l'essenziale praticità di un pettine. Vi sono forme apparentemente connaturate all'essere umano, in grado di travalicare millenni e civiltà, penetrando nel contemporaneo tecnologico con forza e funzionalità immutate. Sembra questo il nocciolo di “Tangible Remains - Toccare quello che resta”, l'ultimo libro della poetessa americana Barbara Carle, nel quale una realtà frantumata come da un gigantesco blackout lascia le tracce di forme, sapori e odori a essa legati. Cinquanta poesie, ognuna ispirata a uno o più oggetti, cinquanta tasselli, reliquie che “esistono da centinaia o migliaia d'anni e sono sopravvissute ai vari crolli di civiltà” compongono un mosaico di vitale compiutezza. Più che uno spoon river degli oggetti e delle cose, questo libro pare costituito come un romanzo imploso, lacerato in pezzi fatti di profumi, sogni, desideri, colori. Ogni oggetto, infatti, è colto come relazione con l'umano, come aggancio per una riflessione che distanzia questa poesia dal minimalismo tanto comune nella letteratura contemporanea italiana. Ne emerge una poesia fatta di continue discese, di osservazioni e rapporti con le cose, come mezzi di contrasto per far emergere emozioni, inquietudini, attraverso il filo della narrazione quotidiana. Nei versi di Carle, vi sono un rigore linguistico, un'essenzialità di forme che è accensione e incandescenza, profonda discesa dentro se stessa. Domenico Adriano, nella breve nota al volume, parla di “feroce eleganza” come tratto distintivo, in grado di rendere questa voce “subito riconoscibile”; in effetti, in questi versi vi è la capacità di modellare il linguaggio come l'acqua dentro l'anfora. Ecco allora poesie verticali e puntute, se parlano di una penna o un candeliere; e versi che si dispiegano mollemente in lunghe volute, quando descrivono un broccato o il colore di un fiore. Tutto però si coagula intorno alla capacità di sentire, toccare e vivere il nocciolo delle cose, con profonda, coraggiosa umanità. Barbara Carle è poeta, traduttrice e critica. è docente alla California State University di Sacramento. Ha pubblicato “Don't waste my beauty/Non guastare la mia bellezza” (2006, traduzione di Antonella Anedda), “New Life/Vita nuova” (2006), “Tangible Remains/Toccare quello che resta” (2009). (libro) La sua copertina rigida contiene angoli che si aprono al tocco. Offre pagine che bisbigliano tra le mani. Attira le dita completamente ma non si completa senza essere toccato. (sciarpa) Una fibrosa delicatezza scivola tra le dita avvolge il corpo di seta mentre armonizza fini infiniti nella sostanza del suo fascino. Sfila impercettibilmente fra le mani si strappa deliziosamente quando è tirata sa adattarsi a tutto come una carezza si muove come una lunga treccia azzurra di cielo. (cucchiaio) La bocca culla la piccola scodella la lingua lecca il suo fondo rotondo si annida allegramente nel finto grembo volteggia gioiosamente nella paletta concava strettamente appoggia la sua pancia d'argento. (finestra) Incornicia la luce. Filtra la morte. Chiude. Sbatte. Si apre. Danna. Tace. Ti fa uscire dalla mente.
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