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Luigi Fontanella

A proposito di “I quattro camminanti” di Rodolfo Di Biasio*

Tu devi essere contenta, carissima mama... anche se la famiglia s’allarga noi staremo sempre insieme, più contenti, perché mò sappiamo che i figli dei figli staranno sempre in questa terra dove gli italiani hanno buttato il sangue. R. Di Biasio Del lavoro narrativo di Rodolfo Di Biasio ricordo ancora con piacere La strega di Pasqua, che lessi e recensii una decina d’anni fa. Cinque anni prima c’era stato un altro titolo narrativo: Il pacco dall’America (1977), libro che, a quanto m’è dato sapere, ebbe una buona accoglienza critica e un’ottima divulgazione soprattutto in ambito scolastico, e che forse adesso, anche alla luce di quest’ultimo libro uscito recentemente (I quattro camminanti, Firenze, Sansoni, 1991), non sarebbe inopportuno che l’autore riproponesse per una riedizione. Quel titolo (Il pacco dall’America), di per sé già così fortemente evocativo, l’ho qui ricordato perché esso fa riferimento a una tematica (il “mito” dell’America e la relativa questione dell’emigrazione italiana) che ora in I quattro camminanti è divenuta assolutamente centrale. Lo enuncia subito uno dei due eserghi in limite al libro: “Ho raccontato le cose del passato così come le seppero quelli che erano rimasti di qua dal mare”. L’altro esergo è del grande studioso del Rinascimento Paul Oscar Kristeller. Vale la pena ricordarlo per la carica psicologica e storica che esso trascina con sé, e che poi è la base dell’intero spirito di questo romanzo: “Voglio anche giustificare l’attrazione irresistibile che provo verso il passato... affermando la mia opinione che il passato rimane reale anche quando è scomparso di scena”. Il passato, in questo caso, è costituito dal mondo-tempo dei primi emigrati italiani in America, prima e dopo la “grande guerra”, emigrazione che continuerà a estendersi fino agli anni Quaranta e Cinquanta, per poi subire una drastica flessione negli anni Sessanta, fin quasi a scomparire nel corso di quest’ultimo ventennio. Di Biasio rievoca con partecipata commozione, e, allo stesso tempo, con sereno distacco emotivo della materia narrata/rievocata, quel mondo-tempo attraverso la storia esemplare di quattro fratelli emigrati (i “quattro camminanti”, così chiamati affettuosamente soprattutto dalla loro genitrice che, insieme a Giose, il primo dei suoi figli espatriati, è personaggio centrale e speculare, sia della vicenda esistenziale della propria famiglia, sia dell’evolversi dei tempi): quattro figure emblematiche che con la loro Erlebnis ci portano di prepotenza al clima sofferto e speranzoso che vissero quotidianamente i nostri primi emigranti in terra americana. Ho usato di proposito il termine squisitamente spitzeriano di Erlebnis (esperienza di vita vissuta) perché, mentre leggevo I quattro camminanti, mi tornava alla mente il bel saggio di Spitzer su I malavoglia. In quel saggio Leo Spitzer si soffermava, tra le altre cose, sul concetto di erlebte Rede, ovvero il “discorso libero indiretto”, impiegato dal Verga: soluzione stilistica che permetteva di esprimere idee e sentimenti propri trasferendoli direttamente sulla bocca dei vari personaggi. Una tecnica, questa, che poi s’è protratta anche nel Novecento e che dal Verga passa (modernamente) al D’Annunzio romanziere, e che arriva fino al Pasolini di Ragazzi di vita. Di Biasio fa sua questa tecnica portandola ad un arricchimento formale, applicandola in particolare laddove il discorso degli emigranti viene espresso tramite le lettere che questi vanno inviando ai loro parenti rimasti “di qua dal mare”. Si veda, esemplarmente su tutti, questo passaggio in cui fra l’altro emerge anche l’uso, efficacissimo, del che in chiave epanalettica: L’america, carissima mama, è grande, e grande che non sai dove comincia e dove finisce. Ma mi fermo a Providence per sempre e se trovo una brava vagliona me la sposo, perché basta con le pazzarie. Questo volevo dirti carissima mama che vi tengo tutti nel cuore i fratelli e le sorelle che non so quando verrò a vedervi vicino al fuoco tutti insieme (...) (p. 39). I precedenti riferimenti ad autori come il Verga e Pasolini non sono emersi casualmente. La presenza del primo ha, come s’è visto, una giustificazione stilistica. Simile al Verga poi è non soltanto la ricchezza idiomatica (da considerare fra l’altro l’inserimento non infrequente di proverbi appartenenti alla cultura orale), che Di Biasio estende anche all’impiego di terminologie appartenenti allo slang e al lessico dell’angloitaliano degli emigranti (mi ci soffermerò tra breve), ma anche per quella forte capacità che potremmo chiamare d’ amputazione testuale, che riduce il discorso narrativo all’essenziale. Si potrebbe dire, per Di Biasio, quello che con felice acutezza rilevava Bontempelli per l’autore de La lupa, ovvero “tagli narrativi improvvisi e netti che riempiono di coltellate tutta la narrazione”. Di Pasolini, invece, è il recupero del passato come forza vitale per interpretare il presente: senza di quello, questo resterebbe un moncone di vita senza storia, pengolante nello spazio-tempo da noi vissuto. Ecco allora che, così come accadeva in La strega di Pasqua, Di Biasio ci parla di un mondo terrigno oggi forse del tutto scomparso; egli ce lo fa rivivere in queste pagine senza rabbia o facili patetismi, ma, appunto, con pasoliniana tenerezza e senso acuto dei valori della vita. Ma rispetto alla prova narrativa precedente I quattro camminanti è opera più ambiziosa che Di Biasio ha costruito con pazienza, passione e tenacia nel tempo. Lo dimostra, tra l’altro, il sorvegliatissimo impasto linguistico, che se da un lato tende a essenzializzare vertiginosamente il narrato con segmenti-sequenza (penso cinematograficamente ai film di Bresson), dall’altro arricchisce questo per il non infrequente uso di neologismi, termini dialettali italianizzati, locuzioni gergali, solecismi: tutti espressamente voluti (e ben controllati) dall’autore per rendere più efficacemente dinamico il mondo interiore degli emigranti, ch’è ovviamente costituito prima di tutto dal loro linguaggio: scrigno intatto dell’eredità linguistica che essi si sono portati dal proprio paese d’origine e, a un tempo, rinnovato serbatoio in cui far convivere, spesso italianizzandolo, il nuovo lessico che si va imparando. Si tratta di una problematica linguistico-letteraria di vasta portata che solo in anni relativamente recenti gli studiosi d’italianistica (soprattutto quanti fra essi operano negli Stati Uniti) hanno preso a studiare. Se ne occupò per primo Prezzolini in un suo saggio poi divenuto un piccolo classico: La giobba. Ma accenni se ne trovano già nel Pascoli che con precoce intuizione poetica li aveva espressi nel celebre poemetto Italy. Di Biasio, anche per esperienze da lui vissute personalmente (ha soggiornato negli States nel 1958), utilizza non pochi di quei termini inglesi che gli emigranti italiani adattarono alla propria Koiné (e tuttora adattano, sebbene il fenomeno oggi mi sembra si sia alquanto sgonfiato). Qualche esempio: “la stimma” (che però Di Biasio preferisce riportare con una sola emme), per “vapore”, dall’inglese steam; il “buordo”, dall’inglese board, per indicare lo stare a pensione presso una famiglia; la “iarda”, dall’inglese yard: giardino; il “bisiniss”, da business: affare, commercio; l’“assorancia”, da insurance: assicurazione; i “muvi”, da movies: cinema; lo “store”, da store: negozio; le “taile”, da tiles: mattonelle; il “policemenne”, da policeman: poliziotto; ecc. Di Biasio ne fa uso, tuttavia, mai eccessivo; anzi devo confessare che su alcuni dei termini da lui utilizzati ho qualche dubbio, soprattutto sull’esattezza della loro ortoepia e relativa trascrizione; tre esempi su tutti: il “moni”, dall’inglese money: danaro, che Di Biasio insiste nell’accentare; il “pari”, da party: festa, che però a me non risulta; la “mascina”, per macchina, ma il termine angloitaliano è il “carro”, dall’inglese car, a meno che “mascina” non sia di derivazione direttamente dialettale dell’entroterra minturnense, dal Di Biasio ben conosciuto. E, di fatto, il dettato risulta vieppiù arricchito anche di locuzioni gergali che Di Biasio italianizza. Alcuni di questi termini mi sono parsi godibilissimi e veramente unici nella loro pregnanza semantica. Voglio fare almeno quattro esempi: ianare, popenari, calecara, capascarica. Il primo è termine relativo alla fiabistica orale e fa riferimento ai “morti che camminavano per le strade del paese”; e qui vorrei ricordare che nella lingua sarda esiste un possibile corrispettivo nell’espressione domus de janas, cioè “casa degli spiriti”. Il secondo (popenari) è anch’esso termine appartenente alla tradizione orale e fa riferimento a coloro che “escono quando c’è la luna, e allora è meglio starsene a casa” (p. 10). Il terzo allude ai forni che un tempo scavavano i contadini del basso Lazio-Campania settentrionale in cui essi vi facevano cuocere le pietre per la produzione della calce (p. 4). Il quarto (p. 18) si spiega da sé ed è lessema divertentissimo nell’indicare una persona poco assennata; termine, tra l’altro, appartenente a una folta famiglia di parole composte, tutte inizianti per “capa” (testa): capatosta; capaquadra; capa’nzalanuta; capafresca; ecc.: locuzioni meridionali che si riallacciano al napoletano esteso. A tale proposito, perché non corredare il libro di un glossarietto finale? Ad esso avrebbe potuto utilmente attingere il lettore poco avvezzo a questa terminologia regionale.In ogni caso il romanzo si legge tutto d’un fiato ed è frutto d’una decantazione superba (forse l’unico capitolo che contiene qualche sfasatura è il secondo). E va sottolineato che, pur nella commovente rievocazione epocale (Di Biasio ha sottotitolato il romanzo Stampa d’epoca, ch’è, forse, preoccupazione eccessiva) in cui ogni personaggio è una particella vibrante di memorie e fantasie personali, l’autore riesce sempre a mantenere il sobrio, giusto distacco tra lui e la materia palpitante della narrazione, senza cadere mai in un patetismo autoindulgente che pure, per uno scrittore che questa “epopea” l’ha anche vista/vissuta, poteva sempre essere in agguato. Il sentimento finale che se ne ricava (penso soprattutto alle bellissime pagine del quarto e ultimo capitolo) è un distillato di grande sensibilità, saggezza e forza etica.

*In “Misure Critiche”, XXI, nn. 80-81, luglio-dicembre 1999.


Marcello Carlino

Il sistema complesso e i quadri di rappresentazione di una memoria “civile”: “I quattro camminanti” di Rodolfo Di Biasio* Saga di una famiglia dell’Italia del sud, che il bisogno sradica e smembra costringendo alcuni figli a tentare fortuna in terra d’Ame rica, capitolo che sarebbe errato considerare tardivo o anacronistico – della storia secolare dell’emigrazione, che ha popolato densamente l’immaginario collettivo e ha offerto abbondante materia alla scrittura letteraria, I quattro camminanti appare particolarmente tempestivo, prestando una significativa testimonianza civile, oggi che le Americhe, spesso illusorie e più spesso amare, si sono disseminate nel nord e nell’ovest del mondo, mentre, sospinta dai venti della recessione e degli egoismi regionali monta ovunque una preoccupante ondata xenofoba, nella quale rigurgitano i disvalori dell’intolleranza e le aberrazioni del razzismo. Il romanzo di Di Biasio restituisce a dolente evidenza un passato prossimo – che troppo presto ci è parso remoto e che il sentire comune ha rimosso – quando dal nostro paese, ora stazione d’arrivo non sempre ospitale, partivano cammini della speranza accompagnati da una sequela di frustrazioni, attesi da penose fatiche, segnati da difficili integrazioni. È un merito che gli va riconosciuto senza dubbi di sorta: per costruire più giusti ed umani gli scenari futuri, che conteranno esodi massicci e diffuse società multietniche, abbiamo bisogno di riaprire gli occhi su ciò che siamo stati, sulle tante tradotte da Trevice a Torino, sui bastimenti che ci hanno stipato facendo rotta verso porti lontani, serva pure a ridestare la memoria storica il ritmo di vecchie scene di vita vissuta, che la comunità culturale ha esecrato quali griffes d’una stagione di letteratura irrimediabilmente trascorsa e irrecuperabile. Ma, sebbene la materia del racconto suggerisca possibili vincoli di parentela, I quattro camminanti non è certo un remake del romanzo neorealista e non si mostra, in sintonia con quei testi narrativi che, sulla stessa linea di gusto, hanno battuto in illo tempore i temi cruciali della questione meridionale. Né v’è traccia del cosiddetto neo-neorealismo, che da altri media sta profilandosi come una moda nascente. Di quelli non conserva, neppure in parte, la schematica modulazione ideologica, responsabile a volte di una predicazione oratoria di tesi sommariamente precostituite, a volte della facile cantabilità di motivetti patetico-populistici. Di questo non condivide la pretesa di una presa diretta, in cui il documento finisce travolto dall’enfasi di una sedicente immediatezza e quindi mistificato da una spettacolarità sopra le righe, ai limiti del sensazionalismo. Da questo e da quelli si distingue per il valore strutturante che vi assume la memoria e congiuntamente, perseguita con tenacia, per una strategia di messa a distanza dell’oggetto della narrazione. La memoria, in I quattro camminanti, ha una triplice investitura e una triplice declinazione. È la memoria dell’autore, impegnato in una biografia della famiglia che gli appartiene: un lavoro lungo decenni, nel quale fantasmi e ossessioni già provati e riprovati nelle opere in versi e in prosa hanno avuto tempo bastante per decantarsi e, per giunta, ne sono richiesti obbligatoriamente da un libro che, nella storia letteraria di Di Biasio, è candidato ad essere un punto fermo, definitivo come un lascito pubblico e come un monumento testamentario alle proprie radici, alle origini della propria esperienza. E poi è la memoria collettiva che affiora intermittente, quando volontaria quando involontaria, e stampa sulla pagina, per frammenti o nuances, o interi, figure ed emblemi in cui i linguaggi specifici dell’arte hanno condensato e translitterato, spesso recuperandoli ad una più lunga durata, gli accadimenti della storia: c’è un alone di letterarietà che avvolge i tratti e i gesti dei personaggi e li fa essere anche metafore di altro, mentre sono attori del dramma che è loro, e che è di cent’anni di mezzogiorno italiano: il distanziamento e la rifrazione, che l’effetto alone produce, scavano ulteriori profondità prospettiche e accendono occasioni di polisenso. E infine è la memoria che la scrittura letteraria ha di sé e che essa reinveste per internarsi sopra le proprie funzioni e i propri destini: una dimensione autoriflessiva si coglie nel controluce de I quattro camminanti e vi agisce da valore semantico aggiunto, da fattore di accrescimento e di problematizzazione, come accade – e accade in specie nelle opere apicali di un percorso autoriale – quando la narrazione e la metanarrazione, lo sguardo volto all’esterno (che ricusa tentazioni autistiche) e l’introspezione autoanalitica del testo (che dichiara finalità e attese di cui è caricata la scrittura) fanno tutt’uno nel corpo del racconto. Alla sostanza trinitaria della memoria, alla sua complessità architettonica e alla sua acutezza, si debbono per intanto, nel romanzo di Di Biasio la tendenza all’asciuttezza dello stile e una rigorosa fedeltà all’arte del levare. Non casualmente, chiamati a rendere testimonianza, le locuzioni gergali e lo slang italo-americano, con accentuate cadenze dialettali abitano pressoché in esclusiva le battute di dialogo e le lettere riportate integralmente che viaggiano per l’oceano e fanno da collanti per il nucleo familiare; mentre, quando tace il discorso diretto dei personaggi, l’io narrante adotta un linguaggio senza inflessioni discreto e sommesso, quasi “anonimo”, dove finanche i prestiti dalla grammatica e dalla sintassi del parlato appaiono ridotti per quantità e qualità, e gli stessi fraseggi di discorso indiretto, che riecheggiano dei pensieri e delle parole dei quattro emigranti, spengono timbri e tonalità popolari e contadine. L’io narrante non millanta una, per altro improbabile, estraneità; ma il suo compito di osservatore partecipe è assolto mantenendo sempre le opportune distanze e segnando con le marche dello stile una differenza di posizione e di funzione: la posizione di chi ha visto le tranches de vie, e dunque la materia del narrare, come nel riflesso e nel filtro di uno sciame di racconti altrui (le “parabole” epico-fiabesche dei nonni: e il nonno è un “raccontatore favoloso”); e la funzione di chi ritesse a largo raggio i diversi fili della memoria e non può né deve accorciarne respiro e varietà di sfumature e possibilità di combinazione e d’intreccio, schiacciandoli e comprimendoli sulla superficie uniforme di una cronaca familiare tra idillio e elegia. Rinvenire, nel farsi atto di una tale intentio operis, piene del sentimento, trovarvi immedesimazioni patetiche e interiezioni nostalgiche o colori da bozzetto folklorico – o scorgervi mosso di declamazioni populistiche sopra un eterno retaggio di miserie e sopra un arduo comune amaro destino di riscatto – sarebbe vano quanto cercare un ago nel pagliaio: già all’altezza del frontespizio, il paratesto mette sull’ avviso il lettore annunciando, con Stampa d’epoca, personaggi e vicende che il lavorio del tempo ha decantato, non cancellato, e che ormai si lasciano leggere solo da distante, come in una litografia o in un dagherrotipo, su cui la memoria negli anni ha impresso i suoi segni, divenuti a mano a mano i segni stessi del testo, e che pretende irrinunciabile un esercizio di memoria. Del dagherrotipo I quattro camminanti ha la suggestione e i chiaroscuri vibratili del bianco e nero. Il sottotitolo predice anche, e con precisione notevole, la forma del récit. Come in una stampa, in cui la narrazione è mediata dalla fissità delle immagini, in I quattro camminanti il racconto non ha carta libera e non si distende in uno sviluppo lineare e progressivo, ma hanno luogo interruzioni e stacchi, diversioni e intermittenze, ed è il distribuirsi delle figure, singolarmente o a gruppi, e sono i dettagli, importanti quanto i primi piani, a cucire la trama e a edificare il senso. Romanzo che ha poco del romanzo normotipo, struttura policentrica a guisa di costellazione, I quattro camminanti si compone di quattro “parabole” distinte eppure convergenti, che si partono come da quei medaglioni che sulle pareti delle vecchie case, appena ritoccati a matita, riassumevano in una galleria di ritratti la storia della famiglia. Supporre che Di Biasio abbia lavorato allo stesso modo di chi, sull’ occasione spinta di un volto di una stampa d’epoca, frequentemente osservata con affetto e partecipazione, bussa ai propri ricordi, agli scarni documenti disponibili, ai molti racconti di una privata tradizione orale e di una pubblica tradizione scritta, per muovere sulla pagina il personaggio e dargli compagni e rileggerne gli inizi e seguirne il destino – e supporre che l’operazione sia stata ripetuta con le necessarie varianti, altre tre volte – non ci porterebbe lontano dal vero. Si dice della madre, infatti: “Ascoltava a letto, i figli dormivano, con una fotografia di Peppino di Geremia e di Pasquale tra le mani, se l’erano fatta qualche giorno prima dell’imbarco di Pasquale. e cercava di leggere nelle facce di carta dei figli i pensieri che gli correvano nella mente e i sentimenti che erano dentro il cuore.” È certo che I quattro camminanti, eseguito sulle mappe progettuali della memoria, ha al suo interno quattro quadri di rappresentazione, e quattro angolazioni, e quattro focalizzazioni prospettiche: non v’è un solo racconto che si dirama senza smarrire il filo della sua continuità, ma quattro racconti che a grado a grado si intrecciano: non deduttiva ma induttiva, come richiede l’esercizio della memoria, è la logique du récit, che muove dal basso, non dall’alto, e cresce a macchie di leopardo congiungendo in itinere segmenti narrativi, aggregando informanti ed indizi. I quattro camminanti, anche per questo, ha un assetto corale. Procedendosi siffattamente, prende a consistere nel testo, funzionale alla critica delle certezze letterarie consolidate e all’aumento di potenza delle correnti semantiche tra i due poli cosi riattivati, la relazione dialettica tra nuclei di epos e nuclei di romanzo, gli uni rigenerati e liberati da una cristallizzazione iconica in odore di regressione e di nostalgia, gli altri trattenuti da velleità espansionistiche e resi indisponibili ad una dirigistica e semplificante riduzione scenica della multiformità dell’esperienza, sotto la regia di un monolitico io ordinatore. E quella dialettica induce, caricata di ricettività polisensa, la dialettica di storia e mito. Le vite parallele dei personaggi, capitolo della diaspora di intere generazioni pressate dalla povertà e da uno squilibrio mai medicato tra nord e sud, affondano le radici nella realtà storica, particolare quanto generale, privata quanto pubblica, e rendono testimonianza delle sue contraddizioni. Recando a sostegno un corposo bagaglio di prove: una provincia arretrata e senza sviluppo con una agricoltura frazionata e avara e con una iniziativa imprenditoriale priva di sostegni e di garanzie, lasciata inerme dinnanzi ai capricci e alle congiure del caso; una clandestinità, prima sperimentata nei viaggi per mare e poi lungamente vissuta nelle città d’oltreoceano, che si traduce in una provvisorietà e una ghettizzazione durissime da scalfire e che, anche quando le questioni legali siano risolte e magari si sia fatta fortuna, residua in una possibilità di vero contatto umano limitata alla cerchia degli emigrati, per entro quelle riserve dove si replicano nomi, luoghi e tradizioni a surrogare la lontana terra natale: una volontà – una povera volontà di potenza – di apparire e di marcare il proprio ruolo nel gruppo – la cura organizzativa e lo sfarzo senza calcolare sprechi, delle feste religiose e delle cerimonie di famiglia – che racchiude e proietta, spostato e indirizzato verso forme sostitutive e risarcitorie, un bisogno d’essere e di ritrovare una identità perduta: una ibridazione linguistica – perciò la necessità di documentarla nei tratti di discorso diretto – che appare l’omologo di una condizione di limbo, quando non di inferno. Si volgono all’immaginario collettivo, sembrando seguire la bussola di una fondazione antropologica della letteratura, e manifestano i segni particolari di una seconda natura, governata dal mito, una congerie di elementi, i quali, per la loro posizione sulla scacchiera del testo e per la loro frequenza, non hanno alcunché di occasionale né di accessorio, o di ornamentale, ma tengono invece dei motivi legati. Il padre e la madre de I quattro camminanti, senza perdere in concretezza realistica e in forza di denuncia storica, hanno incisi sulle loro maschere e sui loro volti inconfondibili stigmi metatemporali. L’uno, che è stato imprenditore di una calecara andata a male e che viaggia a più riprese tra Italia e America per assicurare l’unità della famiglia intorno agli atavici valori di una cultura contadina, è uomo della sua terra e uomo del mondo, è l’antico pater familias ed è insieme (un indizio nella sua intuizione di prospettive di sviluppo e di emancipazione sociale, oltre gli angusti confini di una economia agricola) homo faber aperto al nuovo da inventare e da realizzare, costi pure il prezzo di rinunce dolorose, di rischi considerevoli, di pesanti sconfitte: nella sua statuaria complessione, che lo assomiglia al personaggio di un’epopea popolare, il padre ha le medesime fattezze del Gran Lombardo di Vittorini. L’altro è l’archetipo della figura materna: custode delle memorie domestiche, rifugio e conforto sicuro nei momenti più bui, destinataria partecipe delle confessioni più segrete e delle speranze dei figli (e medio di comunicazione con il padre), sostenitrice delle iniziative dei suoi familiari nel pieno rispetto della loro volontà e delle loro aspirazioni, “parabolana” per i nipoti, è soprattutto composta e dignitosa mater dolorosa quando le sue creature partono ad una ad una e quando il primo camminante muore nelle terre lontane del nuovo mondo, non avendo avuto il tempo di tornare neppure una volta. Su Geremia, l’unico ad aver fatto davvero fortuna, il mito dell’ America taglia, per l’occasione di un breve rientro in paese, un abito bianco, uno status symbol, un marchio d’elezione, un metaforico telone su cui si proiettano i sogni e i desideri di chi è rimasto a terra, al di qua del mare (vestiva di bianco anche il cugino de I mari del sud di Pavese). Di sfondo a Geremia e a Repossi, l’altro fratello, sembrano scorrere i fotogrammi di certa filmografia americana che ha accompagnato, quando il cinema era luogo pressoché quotidiano di fascinazione e di condensazione dell’immaginario collettivo, le giovani generazioni di alcuni anni addietro (e sono le sequenze del tracollo economico del 1929: e sono fugacissime zoomate, tra camera d’albergo e bische e sprazzi di gioventù bruciata, nelle quali potresti ritrovare James Dean o gli ambienti fumosi di Casablanca: ed è un’America per scene d’interno, come quasi sempre in I quattro camminanti – dove la condizione di semiclandestinità dei personaggi non è mai del tutto vinta né l’America veramente conosciuta – e come è imposto da uno spazio del testo costruito, in primo luogo, da dentro le stanze della memoria). Ma le evenienze del mito non toccano soltanto – e configurerebbero pur sempre un indice semantico di tutto rilievo – circostanze e motivi del romanzo, ne permeano anche le nervature e le articolazioni profonde. Ed è così che una prova di iniziazione, centrata sopra il tabù della morte, fa da viatico. Al viaggio di Peppino e, quale topos accertato di quell’archetipo di ogni racconto che è la fiaba, investe il viaggio di un senso secondo e lo prolunga in estensione e in durata, fino a renderlo, anche, metafora della vita. Una metafora – e una contemporanea discesa alle radici antropologiche del narrare – che si disegna nelle stesse dinamiche di rapporto di alcuni nuclei semantici, non effimeri benché poco appariscenti (e sono lampeggiamenti del mito, e sono nuances simbologiche agglutinate in leitmotive), dei quali sono innegabili la portanza strutturale e la funzione di impulso: si dice in particolare, riverberati dalla poesia di Di Biasio, dei temi della terra, dell’acqua e del fuoco, che sorreggono e assecondano il racconto di un unico viaggio articolato in quattro percorsi paralleli e, intrecciandosi, lo squadernano, disposto sincronicamente nelle sue vicende di speranze e di delusioni (la terra e il fuoco della calecara, l’acqua che lo spenge), di chimere e di paure (il mare che, lontano, accende nell’indistinto dell’orizzonte l’ eldorado atteso dal desiderio: il mare che separa e allontana, per sempre; il mare della vita e il mare della morte), di sradicamento, di deriva, di nuovi incerti ancoraggi. Che il testo, andando e tornando dal mito e dalla storia sotto l’impulso della memoria individuale e della memoria collettiva, si mostri tutt’affatto policentrico; che i racconti. attraversati e sostenuti da correnti dialettiche, siano funzionalmente distinti e pure si rispondano e convergano in un unico programma narrativo, senza però abdicare alla loro relativa autonomia morfologica e semantica, è risultanza sulla quale sarebbe difficile dissentire, convalidata come appare dalla tipicità specifica dei diversi personaggi, nessuno nella parte di comparsa, tutti protagonisti, invece, in un romanzo in assetto orizzontale, intraducibile in forme piramidali, irriducibile a gerarchie di contenuti e di ruoli. Ne viene autorizzata una pluralità di livelli di significato e di lettura: e sono come anelli, ognuno con le proprie marche di definizione e il proprio spazio di riferimento, che si aprono ad una dinamica di interrelazioni e si incatenano, in progress, in un polinucleare organismo unitario. La religione della famiglia, il testamento olografo che consegna l’eredità dell’origine, è professata con laica asciuttezza nel racconto implicito disegnato a cornice dei quattro capitoli del romanzo (le prime pagine centrate sul pater familias, le ultime dove campeggia con grandiosa dignità la figura della mater dolorosa), e incorona a numi tutelati i nomi dell’io che narra, gli antesignani di ogni narrare. L’epopea popolare riscopre in Peppino, più ancora che nel padre che pure ne ha i tratti fisiognomici, l’eroe senza macchia che si erge nella tradizione del genere; e ha modo di distendersi particolarmente, ma rattenuta e inenfatica, lungo tutte le peripezie del primo camminante. Il mito dell’America, mai perdendosi in astrazioni intellettualistiche o convalidando l’alibi dell’illusione e del sogno, fa lega, in specie, con la corporeità terragna di Geremia e ne accompagna lo smarrimento e poi il successo, la concretezza volitiva e l’innocenza: la vicenda del secondo camminante appare come un racconto dell’immaginario collettivo, modificatosi per sedimentazioni di scritture e di oralità, per chimismi endogeni ed esogeni, per correnti convettive dall’alto e dal basso. L’altra faccia della luna, la realtà che si cela dietro il sogno americano, la verità dietro l’illusione, ha il profilo tipicamente caratteristico di Repossi, il terzo emigrante; vi sono incisi, non così che ne sbalzino punte declamatorie, le sue stesse inquietudini, il suo stesso insuperato spaesamento (che comincia assai prima del viaggio oltremare e ha radici nella difficile transizione, sua e di molti come lui, da una condizione – e da una civiltà – contadina, che va inesorabilmente a morire, a una condizione operaia o piccolo borghese). Su Adolfo, infine, fa perno quella sorta di racconto sul racconto che è il quarto medaglione de I quattro camminanti. Non solo le immagini amare, indotte dai patimenti e dall’ esclusione, né solo le cartoline illustrate dal mito e addolcite dalla voglia di non smettere la speranza: Adolfo ha moltissimo tempo libero (la malattia glielo ha liberato) e pensa, riflette, guarda, ascolta, interpreta, dialoga: il suo campo d’esperienza e il suo terreno d’azione hanno confini ben più vasti della cerchia degli emigrati alla quale egli appartiene, e perciò, unico tra i fratelli, conosce davvero l’America. Faceva il falegname e lo faceva da artista; ora che non può più lavorare e lo stato gli ha riconosciuto una pensione di guerra, dovendo centellinare le forze, Adolfo crea le sue opere d’arte in tempi lunghi, lungamente soppesati, senz’altro scopo che il piacere e la testimonianza di sé e un messaggio durevole di serietà e di impegno e un richiamo alla memoria. Adolfo ha saputo prima accettare, ma senza rassegnazione, poi volgere in positivo il male che lo ha aggredito e lo ha costretto a ciò che il senso comune e il principio di realtà definiscono inazione. Inattivo, se si valuta sull’unità di misura della prestazione e della produttività materiale, Adolfo è in verità attivissimo: è lui che tiene i fili della comunicazione nella famiglia, è lui che sa leggere il non detto che vi affiora e che altri non potrebbe cogliere, è lui il più aperto, il più volto all’esterno, il più disponibile al nuovo, mentre non dura fatica figurarselo antico nei gesti lenti e misurati, che lavorano il legno e costruiscono, per dono di una vita al figlio, un oggetto pieno di risorse, di mirabolanti congegni, di segretissime custodie: una scrivania, strumento deputato alla scrittura. Non possono esservi dubbi. Il quarto camminante adombra un sosia dell’io che narra, e si candida a metafora dello scrittore. E il racconto di Adolfo è il luogo della rappresentazione di una scrittura che si rammemora e riflette su se stessa, dichiarando, intanto per I quattro camminanti, ma senza toni da proclama, le sue funzioni e i suoi obiettivi: gettare un ponte tra ciò ché è stato e ciò che è, esercitare una vista stereoscopica che metta a fuoco e a frutto ciò che è alle nostre spalle e ciò che ci è davanti, e dialogare, arte che esclude certezze, verità precostituite e modelli cogenti, e richiede invece tolleranza, ascolto e intelligenza delle diversità delle culture e delle forme. II racconto di Adolfo ha una diatesi segnatamente metanarrativa: è pertanto che da ultimo, come in un’epifania, si mostra forza di attrazione gravitazionale e di coesione della struttura policentrica de I quattro camminanti e tiene ancorate le varietà dei registri, le spinte difformi dei particolari, le dialettiche di mito e storia, epos e romanzo. Il capitolo finale è la chiosa autoanalitica ed è insieme, circolarmente, l’input del testo; è la memoria strutturale di una testimonianza civile di forte rigore e di grande significato.

*In “Gradiva”, nn. 12-13, 1995.


Paolo Giordano

Dall’Italia all’America: “I quattro camminanti” di Rodolfo Di Biasio*

Tutti sanno, certo, degli aspetti drammatici e tragici, associati, tra Ottocento e Novecento, al fenomeno dell’emigrazione – fenomeno soprattutto meridionale –, con quelle grandi masse umane (e poverissime) che si spostavano su bastimenti stracarichi, in condizioni quanto mai precarie, spesso ai limiti stessi della resistenza, sostenute dal miraggio dell’America, quel “Nuovo Mondo” mitico, carico di tutte le speranze, di tutte le attese. Gli effetti sociologici di quell’enorme e abnorme fenomeno sono ormai ben noti: lo sconvolgimento umano e sociale, di costumi e tradizioni, di mobilità e di incontro/scontro fra masse umane di diversa provenienza e formazione storico-culturale, che confluiva nel livellamento del melting pot o nella parcellizzazione multirazziale e multiculturale. Non tutti sanno, però, degli effetti più specificatamente culturali e psicologici, di straniamento e faticosa ricomposizione, di smarrimento e moltiplicazione dell’identità. L’emigrazione dall’Italia verso l’America ha raggiunto cifre strabilianti e molto è stato scritto da storici, sociologi, antropologi, ecc., ma è interessante notare che un fatto così reale e a lungo durato, e così drammatico non abbia trovato un riscontro pari alla sua importanza nella nostra narrativa. Alla grande emigrazione italiana Otto-Novecentesca è mancata !a grande voce narrativa, il grande scrittore che potesse ritrarre un affresco di tale drammatico evento. Dal versante nord-americano gli emigranti e i loro figli hanno scritto molto sull’esperienza migratoria, e attualmente si assiste ad una proficua produzione di romanzi e raccolte di poesie da parte di italoamericani della terza e quarta generazione. In Italia gli esemplari letterari dedicati a questo fenomeno biblico sono numerosi, come di recente ci ha brillantemente dimostrato Emilio Franzina in Dall’Arcadia in America che traccia l’emigrazione oltreoceanica, sia nell’America del Nord che nell’America del Sud, ricordando le migliaia di scritti lasciatici da scrittori emigrati, e da scrittori rimasti in Italia. La maggior parte di questi testi sono carichi di un certo valore storico e sociologico, ma privi di valore letterario. Nel 1975, Leonardo Sciascia, nella prefazione alla raccolta di liriche Tutti dicono Germania Germania di Stefano Vilardo, lamentava soprattutto la rarità di testi letterari tendenti a rivelare “la condizione degli emigranti per come è stata, per come è” opere, vale a dire, le cui fondamenta siano costituite da documenti “ri-creati”. Questo non vuol dire che non ci siano stati interventi letterari sull’emigrazione coeva di interesse non soltanto storico/sociale ma anche letterario. Se ne può ricordare qualcuno di esemplare limpidezza quali le opere di De Amicis, Oceano (1887) e Sul mare (1897) romanzi nati da un viaggio oltreoceanico dell’autore. Le esperienze narrate in questi romanzi serviranno a preparare il materiale per quella che è stata definita “la più straordinaria short story ottocentesca sull’emigrazione” e, cioè, Dagli Appennini alle Ande, uno dei punti di forza in Cuore (quel libro straordinario che, con I promessi sposi e Pinocchio, ha avuto un impatto enorme sulla formazione della gioventù e borghesia dell’Italia unita; libro che ancora oggi è fra ì più venduti in Italia). Di particolare importanza è la scena dell’imbarco degli emigranti sul piroscafo Galileo in partenza da Genova per Montevideo, e delle orrende condizioni che questi emigranti trovavano una volta a bordo che De Amicis descrive nel romanzo Sull’oceano. Senza entrare nel merito di un soggetto vasto e complesso come quello del rapporto fra la letteratura italiana di fine secolo e l’ emigrazione (si pensi a Pascoli e la sua Italy o Pirandello dell’Altro figlio o di Nell’albergo è morto un tale), mi pare valga la pena di ricordare, rapidamente, il libro di Luigi Perri, Emigranti. Perri narra le vicende di un piccolo paese calabrese, Pandore, e di una famiglia che, all’inizio del secolo, vengono tragicamente e irrevocabilmente dilaniati dall’ emigrazione. Il romanzo inizia con i contadini di Pandore, che, trovandosi allo stremo delle loro risorse, cercano di evitare la strada obbligata dell’emigrazione con l’occupazione di terre demaniali usurpate dai “galantuomini” dei paesi vicini. Il tentativo fallisce, alcuni dei protagonisti vengono arrestati, e un gruppo di giovani partono per l’ America. Tra gli emigranti si trovano anche i due figli di Rocco Blefari, la cui famiglia sarà distrutta dal fenomeno dell’emigrazione: Gesù, il più grande, ritornerà dall’America consumato dalla sifilide che trasmetterà alla moglie che morirà cieca; Pietro, il più giovane, dopo essere rientrato al paese, morirà accoltellato dall’amante della donna di cui era innamorato; Rosa morirà suicida perché ingiustamente accusata di aver tradito il marito emigrato; Giusa rimane disonorata dalla nascita di un figlio illegittimo avuto da un giovane emigrato e morto in miniera. Nel 1991, pochi mesi dopo che l’Italia e il governo italiano furono sorpresi da un’ondata di profughi albanesi che, su navi stracariche (un po’ come i nostri emigranti), si presentarono alle porte di Bari e Brindisi, entra in scena il bellissimo romanzo di Rodolfo di Biasio, I quattro camminanti, nel quale l’autore dichiara di aver “raccontato le cose del passato così come le seppero quelli che erano rimasti di qua dal mare”. I quattro camminanti racconta le vicende di una famiglia della Ciociaria che subisce e affronta la necessità dell’emigrazione quando la fortuna si accanisce contro Pasquale, il padre di quella famiglia, sognatore intraprendente e sfortunato, il quale, per trovare una via fuori dal ciclo di miseria e povertà che ha sempre afflitto la gente di quella zona, aveva scavato una fornace in cima alla montagna per produrre la calce. Un espediente che avrebbe dovuto essere la sua fortuna, ma un nubifragio gli distrugge la fornace: Era notte e il vento l’acqua i fulmini lo svegliarono, si precipitò lungo la montagna per tentare di salvare la sua fornace. Lavorò come un pazzo, ma l’acqua portata dal vento veniva scagliata con violenza nella fornace, non c’era forza umana che potesse trattenerla. Da una parte lui e dall’altra la tempesta: le fiamme che guizzavano sempre meno e l’aria che diveniva irrespirabile perché l’acqua scioglieva le pietre cotte. Questo colpo di ennesima mala sorte apre le porte all’e migrazione e costringe Peppino, Geremia, Repossi e Adolfo, i figli maggiori di Pasquale e Paolina, a partire per l’America. L’uno diverso dall’altro, questi emigranti hanno caratteri e indole diversi che proiettano quattro differenti idee dell’America, quattro differenti modi di viverla, di subirla, di amarla, quattro immagini di uomo, quasi archetipi, eroi coraggiosi e coatti d’una miseria viscerale e profonda. Quattro destini uniti indissolubilmente dal legame familiare che lo sradicamento fisico dalla terra d’origine non riesce a spezzare ma che, anzi, si rinforza nell’epistolario, scritto in un toccante ed ingenuo pastiche a metà fra italiano, dialetto ed americanismi. Un legame ulteriormente rinnovato anche dalle foto di quei figli lontani e dei volti sconosciuti ma cari delle nuore e dei nipoti che rallegrano le anime semplici ma forti di Pasquale e Paolina. La parola America, quel paese mitico “al di la dell’acqua”, è scritta nel romanzo costantemente con lettera minuscola: così la scrivono i “camminanti” nelle loro lettere e così la scrive l’io narrarne quando è lui a parlare. Scritta così, america diventa un simbolo: non più soltanto continente, ma peculiare condizione dell’esistere, espressione lontana e quotidiana di un altro modo di vivere; america, minuscola come si scrive la parola fame, di cui diventa l’antidoto. È la sconfitta della miseria a prezzo del trapianto, colpo di martello per spezzare la catena di quella miseria secolare che affligge il meridione, una miseria sotto molti aspetti resa ancora più aspra dall’unificazione. I quattro fratelli “camminanti” – e il termine è assai più felice di “emigranti” nel suggerire la ricerca di una strada – sono gli zii dell’ autore e diventano nel racconto “personaggi di una vita strepitosa realizzabile al di là di quella cintura di monti che chiudeva il paese.” II termine “camminanti” ci dà la chiave di lettura del libro e della sua cifra espressiva. Nella vicenda corale dei fratelli c’è ben più di uno spaccato del mondo degli emigrati, c’è il documento esemplare di un’ esperienza umana assai sofferta; un’esperienza di cui coloro che non hanno mai “camminato” possiedono, in fondo, solo delle vaghe cognizioni. Perché la parola emigrazione suscita immediato il ricordo di una fetta nera e dolorosa della storia dell’Italia unitaria: il capitolo delle trafile per le carte dell’espatrio, delle navi stipate di “camminanti” in partenza da Napoli, Genova, Palermo ecc, del viaggio, e delle file folte e pazienti all’arrivo a Ellis Island e poi alle agenzie di collocamento. Un capitolo di storia da cui dovevano uscire, sì, i tanti “padrini” puntualmente trasferiti sullo schermo, ma da cui dovevano anche e soprattutto uscire i vari Fiorello La Guardia e Rudi Giuliani, Mario Cuomo, Ella Grasso (Governatore dello stato del Connecticut), Amedeo Giannini il fondatore della Banca D’America, Martin Scorsese e Francis Ford Coppola, e altri artisti, politici, finanzieri e uomini dello spettacolo che hanno contribuito a plasmare il mito dell’America. Ma il documento si arresta alla concretezza dei fatti e, percorrendo questa linea, nel suo romanzo Di Biasio ci racconta una per volta, e secondo l’ordine di partenza e di distacco, le vicissitudini a cui i quattro fratelli andranno incontro e, poi, intrecciandole e movimentandole quando la diaspora sarà compiuta. Alla fine risulterà un quadro esemplare delle varie e alterne vicende che contrassegna i loro destini. Peppino, il giudizioso primogenito, che lavora con l’asino e va a mietere lo strame sulle montagne parte a sedici anni, poco prima della prima guerra mondiale e funge da rompighiaccio per i fratelli che lo seguiranno. Giunto in America si stabilisce a Providence, nel Rhode Island. Abituato fin dall’infanzia a fungere da esempio di retto cammino, egli diviene l’autentico faro della famiglia al di là dell’oceano. Con la lungimiranza contadina che lo contraddistingue accetta, durante la grande depressione del 1929, di lavorare al minimo dello stipendio presso il macellaio che lo voleva licenziare a causa della crisi. Così, non solo riesce a venire incontro ai bisogni del fratello Geremia, ma si spiana di divenire un rinomato macellaio. Purtroppo, morto precocemente, il suo triste destino è quello di essere l’unico dei fratelli a non tornare al suolo natio e di rivedere la madre. Il secondo camminante è Geremia che Incominciò a scrivere la sua storia un paio di anni prima della guerra del quindici e prima che nel paese alla miseria venissero ad aggiungersi i lutti per tanti giovani che, senza volerlo e senza saperlo, morirono con l’ allucinazione negli occhi lontano da casa. Per questa ragione le strade del mio paese si chiamano oggi tutte con il nome di una battaglia o di un monte che quella guerra ha reso tristemente famosi: Via Piave, Via Podgora, ecc., nomi che mal si adattano a spezzoni di via, a tronconi di case che il tempo sta schiodando dalle fondamenta e che i residui ragazzi sbeffeggiano nei radiosi pomeriggi d’estate. (p. 29) Geremia, dal canto suo, una volta giunto a Providence, spinto dalla voglia del facile benessere, si mette alle dipendenze di un losco titolare di una ditta di autotrasporti. Dopo una sbandata e con l’aiuto del fratello maggiore e del padre Pasquale, venuto in America apposta per aiutare questo figlio, ritrova la ritta via. Durante l’epoca tragica della Depressione Geremia apprende i rudimenti del mestiere di operaio edile che gli consentiranno a poco a poco, di divenire un ricco costruttore, attivo anche nell’importazione delle maioliche. Grazie alla storia di Geremia assistiamo agli effetti storico-economici della grande Depressione del 1929, quando “la miseria ritraversa il mare”, e si leggono intense pagine sulle Little Italies in frammenti. E intanto il “camminante” va costruendosi una nuova esistenza, iniziando dal difficile inserimento nel nuovo “milieu” culturale favorito dall’ aggregazione etnica tipica del “nuovo mondo.” È in questo mondo che Geremia trova la sua Elsa, che sarà la sua migliore fortuna (nel romanzo le figure femminili hanno sempre un ruolo positivo). Il terzo camminante, dal bizzarro nome di Repossi, dopo aver abbandonato gli studi seminariali per il desiderio di una vita avventurosa, si arruola nell’esercito. Dopo un inizio brillante si trova nei pasticci quando impegna il suo fucile per comprare un regalo per sua ragazza, figlia del colonnello. Caduto nella disgrazia l’ultima carta che gli rimane da giocare è la partenza per l’America, nascosto clandestinamente nella stiva della nave. Repossi intravede nell'avventura americana l’extrema ratio di dare un senso alla sua esistenza. Tuttavia, il destino di Repossi rimane difficile anche nel nuovo mondo; entrato in clandestinità negli Stati Uniti, egli diviene, grazie all’innata abilità dialettica e al suo proverbiale savoir faire, direttore di sala in un prestigioso locale. La denuncia all’ufficio immigrazione, ovviamente anonima, non tarda. Deportato, potrà rientrare in America con il visto del consolato americano, ma solo dopo essersi sposato per procura e dopo la nascita di un figlio, frutto di una relazione avuta prima della deportazione con Luisa, anche lei un’emigrante. Adolfo, il quarto camminante, è un artista del legno che espatria negli anni del fascismo. Anche lui dovrà amaramente conquistare il suo diritto a rimanere in America, e con la terra promessa avrà un rapporto destinato a rimanere incompleto. Anch’egli clandestino come il fratello Repossi, alloggia nello scantinato della casa del fratello Geremia. Per non incorrere nelle difficoltà in cui era incappato Repossi, Adolfo sposa Anna e, contemporaneamente per ottenere la cittadinanza, si arruola nell’esercito americano, ma dopo qualche settimana scopre bruscamente il volto nascosto del suo destino. Malato di cuore deve congedarsi ed avviare una vita di rinunce, limitazioni e sacrifici. La malattia non gli impedisce d’essere un uomo moralmente attivo e generoso, e capace come il fratello maggiore, Peppino, di tenere unita la sempre più numerosa famiglia. Ma, Adolfo, grazie alle sue assidue lettere, diventa la voce dall’America, colui che tiene uniti i due lembi della famiglia divisa dall’oceano. Ed è proprio suo figlio maggiore che, studiando e laureandosi, sarà il primo ad inserirsi nella società americana, diventando al tempo stesso il baluardo del successo del sacrificio dell’emigrazione, e colui che, proprio grazie al suo salto di classe, perpetua le mutazioni generazionali che portano all’ inevitabile contaminatio fra due civiltà. Le storie individuali si trasformano in frammenti di una drammatica storia collettiva, come scopre Adolfo, l’ultimo dei camminanti: Nelle parole degli altri capì che l’america era stata una lotta dura, con le sere che scendevano con disperazione. La fortuna accompagnò più di uno e il segno era dato dalla casa, che non era più nei ghetti, dove una umanità dolorante cercava di sopravvivere; il primo tentativo di tutti fu quello di avere una casa in uno strit pulito, con la iarda dove potersi sedere nelle sere d’estate dopo il lavoro con un kent di birra e il vischì a chiacchierare con gli amici. (p. 103) L’America, purtroppo, come spesso in casi del genere, non sarà per loro tutta rose e fiori. Alla struggente nostalgia della terra lontana s’accompagna inevitabilmente la disillusione per la nuova realtà che impone amarezze imprevedibili anche per dei ragazzi maturati precocemente nelle privazioni. Tuttavia, dopo anni di dura resistenza, si definiscono i destini delle nuove famiglie, al di qua e al di là dell’oceano. Passeranno circa quarant’anni prima che uno dei quattro camminanti possa tornare nel paese natale, riallacciando un filo che si era apparentemente spezzato. Solo apparentemente, però, perché, di fatto, a tenerlo ben saldo provvede la vecchia madre, Paolina, la quale assieme al padre Pasquale, è una presenza centrale, una figura quasi mitica del duro lavoro, della coraggiosa sopportazione e dell’invincibile speranza. Pasquale e Paolina sono forse gli unici due a mantenere sempre lo stesso ruolo. Lui, Pasquale, poeta e sognatore, aveva tentato, come abbiamo già detto, di dare agiatezza alla famiglia costruendo un forno per la calce. Ma quando il sogno non si era avverato, era rimasto vicino a questi figli camminanti, incoraggiandoli e tenendosi pronto ad attraversare lui stesso il mare, qualora ci fosse stato ancora bisogno della sua guida-viaggio che, infatti, Pasquale intraprese ben quattro volte prima della morte. Lo si potrebbe paragonare al re di un poema epico, sempre pronto ad intervenire in aiuto di uno dei suoi prodi cavalieri. Lei, Paolina, sempre ancorata alla casa del paese, come una regina il cui unico tesoro è uno scrigno pieno di lettere, che per lei costituiscono presenze concrete e l’aiutano ad immaginare quell’unione familiare che il mare ha sempre infranto nella sua fisicità, ma che le lettere continuano a rafforzare anche dopo la morte del primo figlio, mai rivisto dal giorno della partenza, e dopo quella del marito. A lei bastano lettere e fotografie per sentirsi sempre viva e amata, insostituibile nel cuore di tutti, come tutti sono insostituibili nel suo cuore. Tutto sommato, quelle dei protagonisti di questo romanzo, sono storie di ordinaria emigrazione, di vita vissuta davvero che, però, grazie all’opera discreta e quasi nascosta dell’autore, diventano emblematiche d’una condizione esistenziale che non è solo quella dei vari Giose, Geremia, Repossi o Adolfo, ma danno significato e giustificazione alle tante facce anonime che, nei decenni, hanno riempito questa parte dell’Atlantico. Quattro storie esemplari, che diventano simbolo di una umanità sofferente che paga con lo sradicamento la difesa della propria dignità. I quattro camminanti è la storia di straziante separazione che è il necessario tributo da pagare ad una vita di miseria e di massacrante lavoro. E purtroppo a distanza di anni, e ad onta di un sedicente progresso e delle declamazioni della società capitalista, la storia nel Sud dell’Italia ormai evoluta e benestante non è cambiata di molto. L’argomento come ognuno può constatare, non è certo nuovo. Sull’emigrazione, piaga cancrenosa dell’Italia postunitaria, esiste ormai una trattatistica sterminata di considerevole importanza. Però direi che il romanzo di Di Biasio non è da ritenersi affatto scontato, soprattutto perché oggi il fenomeno migratorio ha assunto proporzioni planetarie. Il fatto, poi, che in questi anni si sia guardato e si guardi all’Italia come a una “nuova America”, e che a patirne le conseguenze maggiori siano popolazioni provenienti da paesi vicini come l’Albania, e paesi lontani, geograficamente e culturalmente, come il Cameroon, Senegal e il Perù aggiunge al tema un sapore di bruciante attualità.

*In “L’esilio come certezza italiana”, A. Ciccarelli-P. Giordano West Lafayette, IN, Bordighera Incorporated, 1998.


Sebastiano Martelli

Dal vecchio mondo al sogno americano. Realtà e immaginario dell’emigrazione nella letteratura italiana* Il romanzo di Rodolfo Di Biasio, I quattro camminanti (1991), è un tentativo, apparentemente fuori tempo massimo, di romanzo totale sull’emigrazione, cui sembra dare conferma l’opzione memoriale di sedimentati nuclei autobiografici; una storia di emigrazione iniziata sulla soglia del primo conflitto mondiale, quando il primo figlio di una famiglia numerosa dell’Italia centrale si incammina sulle vie dell’ emigrazione transoceanica seguito nei due decenni successivi da altri tre fratelli. I frammenti di vita dei quattro fratelli non si disperdono; a tenerli insieme è la memoria dei genitori restati in paese, una memoria peculiare affidata alla madre “moderna Niobe”, che, “condannata dal momento della partenza dei figli ad attendere sulla soglia del tempo”, tiene le fila delle loro storie e dei loro destini al di qua di quell’oceano che non vedrà mai. Storie e destini per lei ormai solo “di carta”, lettere e fotografie, che si accumulano negli anni ma che attraverso di lei entrano in un’unica tela di cui tiene i fili. Una figura di donna che non è solo di mater mediterranea ma è anche metafora della parola, nella sua dimensione antropologica, non segno astratto ma Universo concentrato di sentire e con/sentire, memoria “linfa vitale”, capacità di essere nel presente e di attraversarlo”. Ecco allora il peculiare impasto linguistico: una ibridazione di italiano popolare e dialettale, locuzioni gergali, slang italoamericano, soprattutto nei dialoghi e nelle lettere, che si alternano con una raffinata lingua colta, non su una linea mimetico-realistica quanto piuttosto su un percorso di moderna coscienza poetica che affida alla parola il compito di creare epifanie, di guardare e ricostruire la realtà per illuminazioni e frammenti da far confluire su un’unica tavolozza. La destrutturazione del romanzo realistico, l’assorbimento e la ricreazione dell’oralità popolare, il plurilinguismo sono tutti all’interno di un progetto di racconto in cui l’esperienza poetica dell’autore ha un ruolo determinante, perché consente di realizzare una scrittura a fortissima concentrazione pur essendo geneticamente costituita per frammenti e illuminazioni. L’intenso lavoro di lima ha ulteriormente esaltato le qualità stilistiche del racconto, facendogli acquisire essenzialità ed evocatività. L’afflusso dei termini dello slang italoamericano segnala il mutare di una condizione socio-linguistica e interiore che continua ad alimentarsi al terminale lasciato in patria, dove la moderna Niobe assembla tutti i vari file rendendoli parte di un unico programma-progetto di vita. Via via i “camminanti”, integrati nella società americana, perdono la loro esclusività di emigranti pur conservando le lacerazioni dello sradicamento e i valori che legano i loro destini al mondo delle origini in un confronto accettato e mai evitato con l’America del loro approdo. L’america – scritta con la minuscola come a ridurre simbolicamente i macrosegni totemici emigrazionistici di Mondo Altro – diventa allora metafora di un altrove verso cui tanti altri “camminanti” compiono il loro viaggio, luogo del mito e della memoria da conoscere ed interiorizzare.

*In “Storia dell’emigrazione italiana” a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi e Emilio Franzina, Roma, Donzelli, 2001.


Paolo Leoncini

Camminare stanca. “I quattro camminanti” di Rodolfo Di Biasio* L’alba li colse dietro i racconti, in cui america e paese venivano fusi per la meraviglia e il mistero delle cose e delle persone. Rodolfo Di Biasio, I quattro camminanti Questo libro che ha conosciuto due rapide edizioni nel 1991 e nel 1992, da Sansoni, e che recentemente è stato ristampato da Ghenomena, pone interrogativi critici di ampio respiro. La scrittura elegiaco-rapsodica, all’intersezione di racconto e di saggio, di evocazione e di riflessione, rivela infatti l’unità di una realtà sociale in cui sia chi rimane sia chi parte (chi “cammina”) come emigrante per il Nuovo Continente, si riconosce in radici antropologiche ataviche. E se la dimensione memoriale (la “memoria salvifica”, p. 71) rinvia senza dubbio al Proust della “transmutation du souvenir en une réalité directement sentie, ebbene il fascino del libro di Di Biasio sta nel modo in cui si compie tale “transmutation” dall’accadimento contingente al suo significato profondo attraverso il tempo onnicomprensivo dell’io narrante. In questo romanzo la dimensione del passato è resa presente come immagine mediante una serie di riferimenti (racconti, lettere, foto) di cui l’io narrante è il più recente testimone. L’auroralità antropologica, e il filtro delle mediazioni memoriali, costituiscono i motivi di una continuità temporale, di una evocazione “di secondo grado”, che si modula non sulla realtà ma sul racconto della realtà; una evocazione che si riflette, ad esempio, in uno dei tratti linguistici più evidenti del testo: il parlato-colloquiale dell’italo-americano degli emigranti negli Stati Uniti, dagli inizi del ‘900 alla Seconda Guerra Mondiale, passando attraverso la “grande depressione” del ‘29 e attraverso il fascismo. Questo dell’ emigrazione, che è il tema centrale del libro di Di Biasio, accentrato sui quattro fratelli dell’Italia centro-meridionale (“I quattro camminanti”, appunto) che in progressione cronologica emigrano, si connota simbolicamente come una delle condizioni umane universali, coinvolgendo interrogativi di perturbante attualità, come quelli relativi all’immigrazione clandestina. L’evocazione “di secondo grado” permette invece al tempo narrativo di trasformarsi in figura, rappresentabile a sua volta secondo quel “tranquillo distacco” dell’immagine “vera”, in quanto, insieme, presente ed aurorale, che troviamo in Verga. I richiami a Proust, sul piano del nesso “souvenir”/“réalité” e a Verga, sul piano del “tranquillo distacco”, ci offrono le prime, sollecitanti ipotesi interpretative del libro di Di Biasio; e ci spiegano il sottotitolo (“Stampa d’epoca”) e la citazione, in esergo, da Paul Oscar Kristeller (“Voglio anche giustificare l’attrazione irresistibile che provo verso il passato [...] affermando la mia opinione che il passato rimane reale anche quando è scomparso di scena”); nonché, sempre in esergo, lo spiraglio che ci offre lo stesso autore(“Ho raccontato le cose del passato così come le seppero quelli che erano rimasti di qua dal mare”). Il fondale antropologico e le mediazioni memoriali convergono a formare il passato-presente, il tempo-immagine che costituisce la stratificata ricchezza dei racconti, i quali diventano a loro volta romanzo: infatti, se il racconto di ogni singolo “camminante” presenta una propria configurazione interna, d’altro canto esso si connette ai racconti precedenti o seguenti, creando una tessitura di rinvii diacronici, una dinamica di anticipazioni e di richiami, per cui ogni singolo racconto partecipa di una dimensione ulteriore, narrativamente implicita; dimensione che è appunto il “romanzo”, che dunque si crea per spontanea (ma, insieme, diacronicamente strutturante) eterogenesi. Del resto, questa densità testuale del linguaggio di Di Biasio, non ricercata, non “inventata”, risponde alla poetica dell’autore: il quale rifiuta la letteratura come gioco, come finzione, come convenzione, come fatto estetico; e la concepisce, invece, come adesione veritiera, come scandaglio, come percorso di approfondimento e di condensazione. L’avventura migratoria dei “quattro camminanti” (Peppino-Giose, Geremia, Repossi. Adolfo) è una sfida all’identità, alle matrici ctonie, che si commisurano sulla fatica e la sofferenza dell’espatrio, per cui analogamente ciò che è contingente e storico si commisura. rivelandone le radici autentiche, con ciò che è atavico, profondo, permanente. Le vicende narrate. nella loro sequenza paratattica, si svolgono, come capiamo alla fine, nell’ambito di una conoscenza “precedente”, che guida il futuro: si tratta insomma di una unità esistenziale che esorcizza il tragico secondo una sapienza karmica rivelata, ad esempio nelle parole di Paolina a proposito della morte prematura di Peppino: “Quel figlio [...] aveva sempre pagato per primo, dal momento della sua nascita alla sua morte” (p. 136). Il seguente è implicito nel precedente; e la vita è una unità infrangibile che, per esistere, sfida il tempo. senza ignorarne le difformità, le contraddizioni, la morte. Nel primo dei quattro camminanti prevalgono le radici profonde delle vicende che l’io narrante prende a raccontare. Ecco l’incipit: Nella mia famiglia si parlava sempre dell’america. Soprattutto mio padre. Forse perché, quando lui era nato, uno dei nove fratelli, il primo, era già partito emigrante [...] il destino non li avrebbe fatti mai incontrare [...] A tessere legami c’erano le lettere e i pacchi. Mio padre le leggeva a mia nonna. Le lettere di Peppino dicevano con uniformità che un giorno sarebbe tornato per rivederli finalmente e per conoscere Alterio e Gilda che erano nati dopo la sua partenza. Consegnavano in larga e disarticolata scrittura notizie minute della sua vita e della vita degli altri fratelli. Stavano tutti bene e, grazie a Dio, ognuno camminava per la sua strada e le giornate le passavano tra la giobba e la casa. Poi Peppino raccontava del fico che aveva piantato e che d’inverno copriva con sacchi di tela contro il grande gelo di quella terra. (p. 9) Qui vediamo come l’io narrante entra in medias res: presentando un’immagine dei “quattro camminanti” riferendosi alle lettere di Peppino alla nonna Paolina: Peppino e Paolina, personaggi di una continuità che vede in Peppino il coraggio dell’inizio, l’azzardo dell’avventura e in Paolina il nucleo della terra d’origine, una terra avara, ma a cui tutto ritorna: “Nemmeno per partire avevano deciso, loro erano stati sradicati dalla miseria del tugurio dove erano nati, da una terra che non aveva voluto mai sodalizzare” (p. 46). Il motivo della necessità, della non-libertà, della costrizione, indotte dalla terra e dalla natura, concorda insomma con quello della accettazione coralmente condivisa di un destino terrigeno. L’estremo tentativo di far fronte alla miseria da parte di nonno Pasquale con la costruzione della fornace per fare la calce (la “calecara di Pascale”) viene sconfitto dalla natura ovvero dalla sventura della tempesta. Ciò, per Peppino, non è motivo di disperazione o di rassegnazione, ma è il movente, l’“immediatezza della vita” (p. 12), il passaggio da una temporalità passiva (interna al mondo originario, ai “ritmi eguali della vita del paese”, (p. 13) al “mondo di fuori […] un mondo misterioso che esisteva al di là delle montagne, dove le città erano diecimila volte il paese e le vie di notte continuavano ad essere illuminate dalle luci artificiali” (ivi) ; mentre la volontà di vita prefigura immaginativamente “la terra al di là dell’acqua” (p. 14) come luogo del destino. L’“immediatezza della vita”, l’assenza di un’adolescenza borghese, il contatto diretto con le necessità materiali, concomitano con la consapevolezza di Vincenzo (“un uomo dell’età di suo padre” che “aveva fatto domanda per emigrare”, p. 18), e il “suono delle parole” di quest’ultimo comunica a Peppino una coscienza antica: Vincenzo continuò a guardarlo come aveva guardato poco prima i figli: – Si vede che siamo nati dove sedici anni devono bastare. Peppino capì le parole di Vincenzo, perché avevano lo stesso suono di tante altre che già avevano detto sua madre e suo padre, le stesse che si era abituato a sentire nell’aria, per le vie del paese. (p. 19) Il suono delle parole si armonizza con la voce della natura: Con l’ora tarda [...] nasceva un soffio di vento e il bosco intorno allora faceva una musica tutta sua, un suono sempre diverso, quel soffio che portava a spasso per il cielo come una processione le nuvole. (p. 21) L’incanto del movimento cosmico crea così una partecipazione che è radicamento nella terra e, insieme, coraggio dell’altrove; un fondale che, nella parte incipitaria del libro, si esprime in pagine di intensità lirica; e che poi intriderà come riferimento esistenziale, come autenticità vivente, le vicende dei quattro camminanti: L’estate in paese venne bella come non mai. Peppino l’avrebbe ricordata per sempre […] con le piante di fichi cariche da scoppiare e i pomodori che profumavano negli orti, in cielo il volo degli sparvieri era continuo fino a che non si fiondavano sulla preda, le serate erano quiete e dolci all’aperto per un soffio di vento che non mancava mai e le ragazze parevano essersi fatte ancora più belle per la luce che avevano negli occhi. Peppino […] ora cominciava a vedere con occhi nuovi, di chi sta per abbandonare le persone e le cose, e gli pareva per un attimo che la forza per lasciarle non l’avrebbe mai trovata, ma a respingere il filo d’incertezza c’erano i vecchi, le donne e gli uomini sposati che dicevano che la giovinezza in paese dura poco, è una stagione rapida e le ragazze a vent’anni già portano i segni di una fatica che le spegne. (pp. 24-25) Il tempo della natura, il ritmo cosmico, la vita del paese, la percezione di Peppino, che diventa più intensa nel pensiero del distacco, vicendevolmente si richiamano in passi come il precedente, dove abbiamo una natura che appare nel suo splendore, ma a cui l’esistenza, condizionata dalle leggi della povertà, della fatica, del sacrificio, non corrisponde. Ma la scrittura evocativa di Di Biasio ci dice che se natura ed esistenza possono essere antitetiche, natura e anima appartengono ad una medesima origine, come possiamo rilevare dai brani seguenti, soprattutto quello della “discesa” al cimitero per prendere “la croce che sta nella cappella”, come supremo rituale che permette il contatto con la morte, esorcizzandone il tragico: Fuori la notte non era mai stata così bella, a Peppino pareva di poter allungare la mano e di prendere le stelle tanto erano grandi e luminose nel cielo. (p. 26) La gente che passava accanto all’orto salutava e avvertiva il dolore sulle foglie del fico. (p. 27) Se sei un uomo, vai al cimitero e prendi la croce che sta nella cappella. Peppino ascoltò e un’ombra passò nei suoi occhi, ma prima che potesse parlare il padre aggiunse: – Se vuoi andare per il mondo, non devi aver paura di niente e di nessuno, né di quello che vedi né di quello che non vedi [...] S’incamminò per la via di polvere che portava al cimitero e lasciò il padre seduto su una pietra sotto la torre [...] Solo quando non vide più il figlio, Pasquale si alzò di scatto e cominciò a correre a precipizio per il tratturo a volerlo raggiungere, a richiamarlo per potergli dire che era già sufficiente quella prova a farlo adulto e a renderlo capace di andarsene. Ma poi si fermò e ritornò sui suoi passi, sedette sulla stessa pietra ed attese, con la compagnia di quel cielo stregato nella sua luce e nella sua bellezza. Peppino non volle mai raccontare a nessuno di quella notte, solo che si abituò a non aver paura più di niente e in ogni occasione dimostrò di avere un dominio perfetto dei suoi nervi. Così cominciò a ripetere, ogni volta che si cadeva nella questione, una frase: “Sono buoni i morti” e un sorriso dolce gli spuntava sul labbro. Quando per Pasquale l’attesa stava per divenire insostenibile e un’angoscia senza fine gli si era fatta sul volto, vide il figlio spuntare alla curva. Se ne veniva lentamente, con la croce sulla spalla. Era lui! Le lagrime cominciarono a scivolargli sulla faccia scavata dal sole, ma prima che Peppino arrivasse se l’era già asciugate e anche la voce, perché fu lui a parlare per primo, gli era tornata la solita, ma a conoscerlo bene vi si avvertiva un’incrinatura che la faceva un po’ tremante per una gioia che non riusciva a nascondere: – Ora la riporteremo insieme e pregheremo io e te, non importa se in chiesa non ci vado mai. (pp. 31-32) L’esperienza catartica, il contatto esorcistico con la morte, fino ad avvertire che “sono buoni i morti” trasformano la finitudine biologica non già in una credenza metafisica quanto piuttosto nell’ulteriorità vivente di una sacralità in cui l’estremo del vissuto non è il confine della finitudine ma la tangibilità del non-condizionato, del permanente: la “bontà della morte” appartiene insomma al fondale naturalistico–antropologico. È questa la metafisica immanente di Di Biasio, esperibile sul crinale vita/morte. La ritroviamo nell’ explicit del libro: Paolina ha accettato “con una fermezza inusitata” la morte di Peppino-Giose (Giose era il nome di Peppino nel Nuovo Continente) a cinquantatré anni (“Giose era deciso a tornare per rivederla, ma il cuore gli aveva fatto quello scherzo brutto a soli cinquantatré anni. Ma per uno che aveva sudato come lui cinquantatré anni erano secoli”.) (p. 68). L’antropologia sacrale di Di Biasio, che non si sbilancia né sul versante dell’ immanenza, né su quello della trascendenza, è innervata nella medesima esperienza-limite della povertà e dello sradicamento. Leggiamo a tal proposito la pagina finale del romanzo, riguardante Paolina. la sua filosofia esistenziale, e la sua “nuova visione”: Sentiva che la vita le aveva dato senza parsimonia. È vero che aveva chiesto molto in cambio, ma ora lei si sentiva convinta che i conti tornavano a favore della sua famiglia, [...] scanditi dalle molte nascite e dalla morte di Pasquale [...] quando il suo uomo aveva superato i settant’anni. In questa nuova visione anche la morte prematura di Giose, il suo ragazzo come si ostinava a riviverlo nella memoria, venne accettata con una fermezza inusitata. Faceva parte della regola, perché la vita non può trafilare tutti gli avvenimenti in una sequenza inalterabile. [...] In una lettera ad Adolfo disse che era contenta che Giose aveva fatto una buona morte, perché a memoria sua i vecchi delle generazioni passate più di tutto sapevano di dover augurare a chi è nato, fortunato o non fortunato, ricco o povero, di poter morire di una buona morte. (pp. 136-137) Quella di Paolina è una sapienza, piuttosto che una filosofia esistenziale. Ci rendiamo conto, allora, che i nessi tempo/immagine, memoria/realtà, natura/anima sono sottesi dal nesso fondamentale memoria/anima: il “souvenir” proustiano inteso come “realité directement sentie” costituisce in realtà, per Di Biasio, il movente del continuum temporale di una consapevolezza ben diversa rispetto alla psicologia borghese-decadente di Proust; mentre il suo linguaggio, dal punto di vista dell’esito configurante della rappresentazione e, potremmo anche dire, della superficie formale (non formalistica), si connota nel senso del “tranquillo distacco” del Verga, ovvero di una cadenza ritmica dell’immagine che nella sua presenza veritiera attinge ad una auroralità atavica e corale. L’anima sorregge la memoria come saggezza formatasi nel tempo, idonea a trasformare il passato in immagine presente ed in prefigurazione destinale; ed è tutto questo che consente di accettare l’ alterità, la discontinuità dell’esistere, la ineliminabilità del male e della morte. Come dice Paolina, “la vita non può trafilare tutti gli avvenimenti in una sequenza inalterabile” (altrimenti, aggiungiamo noi, non sarebbe vita, ma morte a priori). Si tratta di una concezione anti-borghese, radicata nell’esperienza vissuta e priva di ipoteche ideologiche, per cui la memoria si identifica con l’anima atavica, mentre la “buona morte” che i vecchi augurano ai nuovi nati è più importante della stessa nascita, e questo perché ci sono più casualità ed insignificanza nel nascere che nel morire, visto che il morire deriva dalla vita stessa: non dalla vita biologica, ma dai percorsi di trafilazione realizzati accettando l’Altro, il discontinuo. La vita, insomma, non è una “sequenza inalterabile”, come dice Paolina, la cui sapienza è in fondo la stessa memoria-anima, reincarnata nell’io narrante: Nonna Paolina, quando già il nonno Pasquale era morto e molti di noi nipoti o non l’avevamo visto o non lo ricordavamo più, avrebbe poi raccontato tutto questo negli anni subito dopo la guerra [...] Diceva la storia dei suoi figli [...] anche noi dovevamo trovare dentro la forza di andare avanti, perché lei era stata capace di vivere per quasi quarant’anni senza sapere dove si faceva notte e dove si faceva giorno per i suoi figli. Li catturava solo con il pensiero. Noi l’ascoltavamo ragazzi. Ora mi tornano le sue parole come eco e imparai a vedere quegli zii che non sapevo se avrei un giorno incontrato o no come i personaggi di una vita strepitosa realizzabile al di là di quella cintura di monti [...] quattro case attaccate ad una terra che ripeteva a memoria la stessa povertà delle vecchie generazioni e faceva nascere dentro, mentre ti dava il segreto delle foglie e dei nidi, il desiderio di andare oltre nell’ avventura della vita. (pp. 52-53) La memoria, facoltà dell’anima, è insieme l’anima della terra, che, dilatando i limiti del sensibile (“ti dava il segreto delle foglie e dei nidi”) fa nascere il desiderio dell’oltre. Costruito secondo una sequenza paratattica, quasi a scansioni cinetico-rappresentative, il racconto di Di Biasio, dopo il nucleo forte dell’esorcismo mortuario, si svolge accostando alla trepidazione di Paolina (“dal paese nessuno mai si era allontanato, i giovani partivano solo per il soldato e chi non moriva, tornava a riprendere la vita dal punto in cui l’aveva lasciata”, p. 33) la coscienza epocale del fenomeno dell’emigrazione (“l’emigrazione [...] da quando si aprì la porta dell’america fu continua dal paese”, ivi), per cui quest’ultima costituisce, sul versante sociologico, quella dis-continuità, quella possibilità “altra”, intrinseca sul versante antropologico. Come si diceva in precedenza, le lettere o le foto costituiscono il rapporto trai due mondi, sotteso dal movente comune dell’anima. Scrive Peppino-Giose, nella prima lettera dal Nuovo Continente: “Le cose sono andate così e meglio non potevano andare [...] Perciò se Geremia ci vuole pensare e vuole venirsene anche lui, non lo trattenete perché un posto ce lo trovo dalla sera alla mattina. Per ora vi mando il primo dollaro e vi giuro cara mamma e caro tata che è il primo di una montagna che vi voglio mandare [...]. Nell’orto Pasquale leggeva la lettera a Paolina, e con le parole che Pasquale pronunziava lentamente per assaporarle, il nodo che avevano dentro un poco la volta si scioglieva [...] Ora quella lettera se la passavano l’uno con l’altra [...].Quella lettera piena di timbri e di una carta diversa, più resistente, fatta apposta per attraversare il mare! [...] In paese ancora si ricorda quella giornata memorabile. Pasquale diede fondo a tutte le sue risorse di bevitore e […] per prima cosa chiamò il fratello, perché disse il sangue non è acqua [...]. (pp. 35-38) Una lettura de I quattro camminanti induce ad abbondare in citazioni. È la stessa ricchezza centripeta del testo ad implicare una adesione estensiva, e a rimodulare secondo risonanze plurime le ipotesi stesse dei sondaggi critici: Puntuali come l’orologio da quel giorno le lettere di Peppino cominciarono ad arrivare, sempre accompagnate da qualche dollaro e con lunghissime notizie sulla sua vita e su quella delle persone che veniva conoscendo. Tra l’altro scrisse che in america nessuno più lo chiamava Peppino [...] lo chiamavano tutti Giose. (p. 38) Le lettere con le “lunghissime notizie” costituiscono una specie di ipotesto, una traccia narrativa testimoniale, che sollecita l’immagina zione radicandosi nella memoria comune: Ma il momento più bello della settimana – scrisse Giose in un’altra lettera – era la domenica mattina. Prima di tutto la gente si faceva lo sciao, poi prendeva il caffè con la checca e con un bicchierino di vischì. Vestiti con l’abito più bello ogni famiglia, grandi e piccoli, uomini e donne, a piedi andavano alla messa. Era uno spettacolo vederli tutti con gli abiti colorati, puliti dalle scarpe ai capelli, starsene a pregare insieme al prete, pulito e lucente pure lui. Dopo la messa si andava a casa di qualche paesano per parlare dell’Italia dei parenti degli amici e così si faceva l’ora del pranzo, che poi non era un pranzo normale, ma un banchetto con maccheroni, carne, insalata, con la checca un’altra volta e con il caffè, il vischì. Insomma per chi ha voglia di lavorare, insisteva sempre Poppino, la vita qui è bella, anche se non si riesce a fare amicizia con la gente del posto. È l’unica cosa che non va questa, perché quasi sempre gli americani sono i padroni e con noi al di fuori del lavoro non parlano volentieri. (pp. 38-39) L’ipotesto narrativo delle lettere di Peppino (a cui seguiranno quelle di Geremia, di Repossi, di Adolfo) sono una rappresentazione visiva di una vita che si è trasposta altrove conservando l’identità della terra d’origine: e così quel “la vita qui è bella” rivela lo scorrere della vita come matrice generante che attraversa le condizioni dell’altrove; mentre la famiglia americana viene raffigurata nella compostezza degli “abiti colorati” e delle scarpe pulite, del prete “pulito e lucente”; e ancora, la raffigurazione della nuova vita, nei momenti-cardine dell’aggregazione sociale e religiosa, viene “assorbita” da Pasquale e Paolina “attraverso un continuo lavoro di mosaico”. La memoria antropologica e l’ipotesto della testimonianza epistolare insomma coesistono, in quel bilanciamento tra “realité directement sentie” e “tranquillo distacco” che costituisce lo stile narrativo di Di Biasio. Leggiamo: Pasquale e Paolina assorbivano tutte quelle notizie e la terra in cui viveva quel loro figlio cominciava a delinearsi a dispetto della distanza. Attraverso un continuo lavoro di mosaico, erano riusciti a dare ordine ai movimenti del loro Peppino [...] Immaginavano la casa e la famiglia [...] la strada davanti casa, la fabbrica d’aise in cui lavorava, la chiesa e i volti delle persone che ora costituivano il paese reale del figlio. Perché anche questo era certo, pure se Peppino e gli altri italiani vivevano in una grande città, loro si frequentavano in pochi, un paese piccolo in un paese grande. Ma questo che in un primo tempo sembrava un limite e li aveva preoccupati, alla fine si risolse per loro in una maggiore tranquillità, perché a pensarci bene l’altra è sempre gente nata in un’altra terra con altre abitudini e altre idee per la testa. (p. 39) L’ottica distanziata dell’io narrante si bilancia con l’ottica ravvicinata di Pasquale e Paolina, ne è il proseguimento viscerale, incarnato, mentre la coscienza dell’identità permette di comprendere, di rispettare l’alterità: non crea conflitto, rifiuto, ma accettazione. Alla raffigurazione delle lettere di Peppino corrisponde l’ immaginaria di Pasquale e di Paolina che rappresentano a se stessi il paese reale di Peppino: è un esito della memoria-anima, che rende presente il distante, e reale l’immaginario. In ogni caso, le due sponde dell’oceano non rimangono separate, ma ci saranno diverse traversate dei figli, tra cui risalta, per le implicazioni drammatiche (la clandestinità, il contrabbando degli imbarchi), quella di Repossi, il terzo camminante. Del resto non ci saranno soltanto viaggi dei figli, ma lo stesso Pasquale prenderà la via dell’oceano, interpellato da Giose a causa delle tentazioni devianti di Geremia. Si crea così, a livello di romanzo, un crogiolo di situazioni interagenti nello spazio etnico tra Italia e america; e nel tempo generazionale (fino ai nipoti e agli “stranipoti”): [Geremia] un bel giorno disse a Giose che lui lasciava il lavoro, sarebbe andato a Cleveland a portare il trock per un italiano che era diventato un pezzo grosso nei trasporti. Con quello avrebbe guadagnato presto e bene [...]. Giose, che già aveva imparato in che modo si poteva guadagnare presto e bene in america [...] ebbe paura di quella decisione [...]: – Vedi di camminare diritto, se no il sistema, dritto o storto, lo trovo. Se tu stai in america è perché ho detto a tata e a mama che ci pensavo io a te – [...]. Quando Geremia si vide davanti il padre [...] il paese gli piombò addosso. (pp. 47-48) [Pasquale] al ritorno dall’america aveva parlato a lungo a Paolina che voleva sapere ogni cosa per filo e per segno. Lei voleva la ripetizione delle parole. Ascoltava a letto [...] con una fotografia di Peppino e di Geremia e di Pasquale tra le mani, se l’erano fatta qualche giorno prima dell’imbarco di Pasquale, e cercava di leggere nelle facce di carta dei figli i pensieri che gli correvano nella mente e i sentimenti che erano dentro il cuore. (p. 49) La concretezza evocativo-visiva (“leggere nelle facce di carta dei figli”), concomita con la “memoria salvifica”: [Per Geremia] gli anni della fame e della casa infatti erano restati [...] come una specie di porto franco cui approdare con un bicchiere tra le mani: una specie di abbandono ad una memoria salvifica, una memoria che in tanti anni aveva cancellato le punte amare di una vita non certo facile e aveva mitizzato certi punti fermi della famiglia [...] conoscenza delle piante e degli animali, certi scorci di cielo che si assorbono al petto della madre e che nessuna forza può poi sradicare. (p. 71) Ancora, per Paolina, la “nuova prospettiva” dal passato al futuro si rivela attraverso una immagine fotografica: Paolina, quando ricevette la lettera di Adolfo, ancora non aveva accettato la solitudine che le era caduta addosso per la morte di Pasquale e per gli altri che si erano tutti sposati [...] sentiva da parecchio di non essere più indispensabile. Quella lettera le aprì una nuova prospettiva: la fotografia con gli sposi e i parenti tutti legati in un quadro con i vestiti da gran signori, la persuase che non aveva consumato vanamente i suoi anni [...] cominciò a pensare che tra poco dal mare le sarebbero arrivate notizie di nuove nascite. Gli stranipoti, come diceva lei, le sarebbero entrati in casa, i figli dei figli dei suoi figli che lei non avrebbe mai visto e che pure erano sangue del suo sangue. (p. 133) La “fotografia” che diventa “quadro”, i figli vestiti da “gran signori” sono immagini visive in cui si addensa l’azione del tempo; mentre, insieme, il tempo acquisisce un nuovo senso. D’altra parte Qualche anno dopo il matrimonio di Gioia, Adolfo vide il suo primo figlio laureato. Perciò una festa si succedette ad una festa, anche questa memorabile, come dimostrarono le fotografie epiche della cerimonia, perché era il primo della famiglia di qua e di là dal mare a camminare per una nuova via. (p. 134) Per il giorno della laurea, “più importante di quello del matrimonio”, il sarto aveva preparato “i vestiti della festa, fatti a mano” (ivi): Adolfo, quando erano già disposti in casa [...], apriva l’armadio e ne respirava l’odore: l’america per lui era tutta in quel giorno che egli aveva collocato in un tempo immemorabile in una sua autonomia, circoscritta, definita. Il dopo, la successione dei fatti e dei giorni, non avrebbe avuto più importanza; ora aveva raggiunto la sua meta, scandendo i suoi movimenti e inventandosi una vita che non gli aveva permesso sortite. Nella mano che sfiorava i vestiti nuovi poteva ripetere la monotonia dei suoi pasti, da cui aveva cancellato il piacere dei sapori per una assuefazione duratura ai cibi insipidi, legnosi, su cui aveva dovuto preventivare la sua esistenza. (ivi) Alla sensorialità evocativa dell’elemento visivo si aggiunge qui quella dell’elemento tattile-olfattivo: il tempo si condensa in un presente, prefigurato da un “tempo immemorabile”, ed è un tempo arcaico, un tempo innervato in un nucleo genetico; un tempo essenziale, il cui dipanarsi fenomenico può essere evocato, ma che rimane criptico nelle sue origini, non esauribile dalla memoria. Mentre il presente realizzante riconfigura il passato, il nucleo germinale “sapeva già” quale sarebbe stato il futuro, e la laurea del figlio è cosi un passaggio atemporale, parallelo e non successivo alla partenza per il Nuovo Continente: La notte precedente [alla laurea del figlio] non dormì, come non aveva dormito la notte precedente la sua partenza per l’america. Ripercorse i suoni della strada nella lentezza dei minuti, poi si trovò a pensare: “Ma qui non ci sono i battiti del campanile!” e intuì la distanza che aveva percorso [...] Poi gli avvenimenti lo presero nel loro gorgo, la partenza per l’università, la folla multicolore dei parenti, il corpo insegnanti schierato con il tocco e infine il rimbombo del nome del figlio […]. Gli parve di catturare tutta la luce smaniosa del pomeriggio. La raccolse come cosa dovuta e se la calcò dentro definitivamente. (p. 135) Il presente come attimo, istante, evento, eterno che si affaccia nel tempo, si polarizza nell’ottica percettiva della luce, insieme fenomeno visivo e temporale, luce/tempo o tempo/ luce, e il libro di Di Biasio perviene, su questa lunghezza d’onda, a cogliere la continuità tra incipit ed explicit: Adolfo divenne il corrispondente della madre negli ultimi anni della sua vita di vecchia come Peppino lo era stato nei primi anni della partenza. Attraverso le sue parole Paolina segnò passo per passo la vita dei camminanti. dei figli, dei nipoti, degli stranipoti tutti camminanti per lei, un mare di fatti e di notizie che gremirono i suoi ultimi giorni [...] Adolfo questo lo capì e da parte sua non lasciò passare mai un mese senza mandare una lettera in cui i fatti minuscoli assumevano per Paolina la concretezza della vita vissuta, tanto è vero che lei cominciò a parlare [...] dei suoi lontani con quelli che stavano in paese in un incastro che le restituì la famiglia nella sua interezza. (pp. 135-136) Il racconto, nelle lettere, dei “fatti minuscoli” che assumono la “concretezza della vita vissuta” rinvia all’auroralità pre-verbale della parola letteraria (per cui, come dice Bachelard, citato da Ricoeur, “le parole sognano”), che a sua volta si connette al nucleo della comunanza atavica, radice reale dell’immaginario, per cui densità comunicativa ed acquisizione percettiva della parola partecipano di una medesima unità che restituisce l’interezza a ciò che era stato smembrato dalla contingenza del tempo storico. La continuità modula la complessiva diacronia del libro: a cui si riallacciano, secondo differenti implicazioni, i singoli capitoli, dei quali potremmo dire, in termini macroscopici, che se il primo e il quarto si caratterizzano per l’intensità evocativa, lirico-sapienziale, rapsodico-elegiaca, il secondo e il terzo si svolgono piuttosto sul terreno diegetico-narrativo. In ogni caso, ognuno dei quattro capitoli si connette, secondo tangenze plurime, alla diacronia complessiva del libro, evidenziando i molteplici aspetti della vicenda migratoria: le storie dei “quattro camminanti” da un lato realizzano destini umani diversi; dall’altro rinviano a lineamenti più ampi che superano le singole individualità e le riconducono all’orizzonte comune delle virtù morali: la forza d’animo, la pazienza di Peppino (nel primo capitolo); la pazienza di Adolfo nei confronti della sopravvenuta malattia (nel quarto capitolo). In questo modo il “racconto dell’emigrazione”, a livello di “romanzo”, si scandisce secondo un “racconto dei personaggi”, per cui la macrostoria, dagli anni ‘10 del Novecento, al fascismo, alla crisi del ‘29, all’immediato secondo dopoguerra si interseca con la microstoria: ad esempio Repossi, prima seminarista, poi soldato, poi migrante clandestino, è costretto a rimpatriare mentre “Luisa, così è il nome della vagliona, è gravida di Repossi e aspetta un bebitto, così si chiamano gli ninni da queste parti” (p. 99). Geremia e Repossi, soprattutto Repossi, rappresentano le tendenze trasgressive, la difficoltà a uniformarsi alla vita americana, dura e necessitata: Repossi avverte più forte il richiamo della libertà dell’eros, che nel testo emerge come ricerca di “eterna definizione” (p. 83), proiettata sull’immagine delle “dune [...] come creature calde di letto, in cerca di una loro eterna definizione” (ivi), mentre poco dopo, la metafora recede a modo di dire figurato: Repossi “si abituò [...] ad avere sempre il letto caldo, perché le donne vi entravano e vi uscivano” (p. 95). Il richiamo dune-donne a livello fonetico e a livello semantico (per le suggestioni visivo-tattili) anziché nascere dall’inconscio, rinvia qui al nesso natura/anima, che costituisce il movente etico tentato dalla trasgressione; movente etico che riaffiora nella immagine di Luisa, “una ragazza con gli occhi fermi e lucenti” che “gli vuotò la mente dalle altre donne” (p. 96). Paolina e Pasquale invece ricapitolano il tempo, ne costituiscono il radicamento. Quando Geremia torna dal Nuovo Continente: … dell’america raccontava le cose che avrebbero potuto risvegliare in Paolina il ricordo del ragazzo che era partito a sedici anni: le sue pazzarie con la motocicletta quando di notte se ne andava in giro per Cleveland fino a che il padre Pasquale non era venuto a riprenderlo, le serenate che lui e gli amici portavano alle gherle, gli scherzi che faceva al suocero per poter vedere la sua Elsa. Per Repossi, “per quel figlio che aveva il destino di complicarsi la vita” (p. 106) Paolina e Pasquale si rivelano come l’essenza incorruttibile, che sfida le fratture e le lacerazioni, ed ecco che egli, prima di ritornare nel Nuovo Continente, dopo la nascita del figlio, ha un colloquio con suo padre Pasquale: Parlarono per capirsi e le parole che tra loro da sempre si erano interrotte, ora giungevano diritte. Ripercorsero in pochi giorni un’intera vita consapevoli che dopo non avrebbero più avuto il tempo per parlarsi … (p. 106) Le donne del romanzo di Di Biasio appartengono alla medesima radice dei loro uomini: La fortuna di Geremia fu la moglie, una vagliona che se ne era venuta in america dietro la madre per raggiungere il padre dopo una separazione che era durata vent’anni. Vent’anni di lettere, salvo una breve parentesi in cui il padre di Elsa era tornato in Italia per un paio di mesi a trovare la moglie. Prima di partire fece in tempo a lasciarla gravida di quella figlia, che fin da bambina parve concepita nella pietra. (p. 53) Quando Elsa se ne veniva nella iarda col suo passo di cavalla di razza, gli occhi di Geremia si facevano ancora più maliziosi e tra loro correva come una scarica, si guardavano come due puledri pronti a rincorrersi e a possedersi. Eppure l’uno e l’altra volevano rispettare le regole proprio perché venivano da una realtà che teneva a queste regole, perciò prima di metterle da parte volevano giocare tutte le loro carte per non lasciarsi alle spalle nessun rimorso. Vivevano così i giorni del loro amore, certi di essersi scelti e questa sicurezza li faceva protervi e inattaccabili. (p. 56) Il movente erotico si trasforma in movente etico, e viceversa; come possiamo rilevare in quest’altro passaggio: “Dall’Italia me ne sono dovuto andare – ripeteva alla moglie – e coll’Italia voglio diventare ricco. E poi... poi voglio rivedere mama”. Elsa lo ascoltava. Era diventata in tutti quegli anni una donna dura, di ghiaccio con i sette figli che le crescevano intorno: dentro di lei non c’era più spazio per il sentimento, guardava diritto davanti e l’idea del marito le parve buona e perciò lo lasciò partire. Gemi arrivò in paese nel mese d’agosto, quando i fichi scoppiano sulle piante e quando ancora la strada non c’era [...]. L’arrivo in paese fu un trionfo. Grasso lucido vestito con vestiti nuovi fumava una sigaretta dopo l’altra dal profumo buono mentre tutti i parenti gli stavano intorno con i vestiti del paese, cotti dal sole e dal vento, i più anziani ancora con il volto tirato da una guerra che era passata come una tempesta. (p. 65) Qui, la “donna dura” che non ha “più spazio per il sentimento”, in realtà di sentimento ne ha molto se lascia partire Geremia per il suo paese. Il “trionfo” di Geremia in paese è una trasposizione dell’eros, un ricollegarsi alle radici ctonie, germinali, incorruttibili dalla storia (dalla guerra). Come è tipico del linguaggio di Di Biasio, in pochi passaggi assistiamo ad una dinamica metamorfica delle situazioni e dei sentimenti, che si richiamano ad un centro, a un movente unitario: quando il clandestino Adolfo, arruolatosi nell’esercito (“perché Adolfo potesse stare in america non doveva far altro che sposare Anna alla Corte e chiedere contemporaneamente di arruolarsi come volontario nell’esercito”, p. 114) è colpito dalla malattia “che gli esplose dentro con una pervicacia che non poté mai più essere allontanata”, p. 119), ebbene “Anna non mancò mai nella lunga permanenza di Adolfo nell’ospedale un solo week-end” (p. 121), per cui Adolfo accetta, in seguito alla malattia, di “rovesciare il suo ruolo” rispetto alla moglie: La sua giornata cominciava quando ancora Anna e i figli dormivano. Si alzava d’estate e d’inverno alle cinque e scivolava nella casa di tre stanze e cucina come un’ ombra. I suoi si sarebbero abituati a capire che era ora di alzarsi dall’aroma di caffè e del pane tostato che li aspettava caldo, mentre uscivano l’uno dopo l’altro dal bagno. E se qualcuno dei figli, nell’aspettare il turno, si faceva impaziente, con testardaggine tornava a dirgli che loro già erano fortunati ad avere un batrum: egli veniva da un paese dove i bisogni occorreva farli all’aperto ed ogni volta, d’estate e d’inverno, era necessario avventurarsi fuori, lontano dalle case. Anche questo fu un modo per lui di raccontare il passato e di consegnare ai figli la sua vita di prima. (p. 125) Adolfo ed Anna condividono passione e pazienza: Anche l’amore l’aveva dovuto godere con parsimonia, la moglie pian piano gli era sfiorita accanto, ma del suo corpo egli si era comunque impresso le concavità, ne conosceva gli anfratti e li visse, quando il cuore glielo permetteva, con un’intensità forsennata. [...] un prendere e un lasciare che lo avevano segnato profondamente e una nostalgia per tutto ciò che aveva perduto. Non osò mai chiedere ad Anna se le capitasse di guardare delusa la sua giovinezza. (p. 135) I precedenti sondaggi si rivelano inadeguati a rendere conto di un testo ricco nella sua semplicità complessa: un testo che invita ad estendere le citazioni per il senso di una “indicibilità” sul piano della riflessione interpretativa; sotteso da una scelta “arti-letteraria” in essenza, che rifiuta gli allettamenti ludici della gratuità estetica per innervarsi in un vissuto di lacerazioni identitarie alla scoperta di una alterità precedente, e fondante, secondo una drammatica trafila di esperienze. Caso atipico nella letteratura dei primi anni ‘90, il libro di Di Biasio evoca una condizione ricorrente nella storia delle civiltà, quella del “migrante”, anticipando situazioni di scottante e tragica contemporaneità, di cui l’immigrazione clandestina non è che il più recente, macroscopico fenomeno. La parola letteraria dello scrittore, la “poeticità” a cui allude Giuliano Manacorda, non si staccano mai dalle matrici umanistico-an tropologiche, anzi intendono esserne, di momento in momento, una implicazione coinvolta. Tutto ciò pone interrogativi anche sul terreno della teoria della letteratura. Se la letteratura davvero non può essere concepita come un fatto estetico separato e se autore e lettore si incontrano nella “cosa interna” del testo, nel “suo progetto di colloquio immerso nel flusso dell’esperienza e della vita”; se i problemi della vita restano insolubili finché si pensa di coglierli alla superficie: essi devono essere afferrati nella profondità, allora il libro di Di Biasio costituisce un paradigma eccedente rispetto alle condizionanti ipoteche ideologico-metodologiche della cultura letteraria e critica degli scorsi decenni.

*In “Incroci”, gennaio-giugno, 2010.



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